Ci sono dischi che ti rimettono in pace con generi musicali. Mi è successo recentemente con lo stupendo album dei Foo Fighters, "But here we are", e mi succede ancora di più con Jason Isbell e i 400 Unit, autori di questo altrettanto stupendo "Weathervanes".
Il dubbio di partenza: il classic rock americano è diventato troppo "classic"? Ovvero troppo po' formulaico e previdibile, anche nelle sue manifestazioni live: forse quell'aggettivo, spesso inteso come una sorta di consacrazione di riconoscimento del suo ruolo nella musica contemporanea, ci stava dicendo invece che stava invecchiando tutto troppo in fretta; "Las Vegas è dietro l'angolo", mi ha detto un amico, parlandomi di un concerto recente del genere: non aveva tutti i torti.
La storia dei Foo Fighters è particolare: negli ultimi album hanno esplorato strade diverse, con alterni risultati, ma "But here we are" è un'altra storia, un'elaborazione del lutto per la perdita di Taylor Hawkins, un lavoro posseduto dall'urgenza di raccontare storie, urlare e suonare le chitarre. La storia di Jason Isbell è invece, per certi versi più normale: dalla rinascita con "Southeastern" (2013), non sbaglia un album, e ognuno è meglio dei precedenti - in particolare quelli con i 400 Unit, come questo
Il migliore, in america
Isbell scrive canzoni come nessun altro in America, in questo momento: ha attacchi fulmimanti che aprono mondi narrativi ("Have you ever loved a woman with a death wish?", canta nella prima canzone - una tormentata storia d'amore e depressione) e soprattutto non ha paura di affrontare i temi centrali della società americana, ma senza retorica. "King of Oklahoma" è una "Downbound train" al tempo della crisi degli oppiodi, "Cast iron skillet" parte da come si "deve" lavare una padella per raccontare una famiglia in cui le tradizioni tramandate - anche quelle razziste - prendono il sopravvento su qualsiasi cosa, anche sull'amore per i figli; "Save the word" è la storia di genitori terrorizzati che la figlia sia la vittima dell'ennesima sparatoria scolastica. E così via: una raccolta di racconti alla Raymond Carver - con Isbell che parla sempre di più di quello che lo circonda e sempre meno della sua storia di ex-alcolizzato, su cui aveva costruito "Southeastern". D'altra parte lo aveva detto un paio di dischi fa, " “Heard enough of the white man’s blues/ I’ve sang enough about myself".
La miglior band
Poi ci sono i 400 Unit: più che alla E Street Band, assomigliano agli Heartbreakers di Tom Petty, con un chitarrista versatile e risconoscibile in Sadler Vaden. Sono capaci di passare in rassegna i vari sottogeneri del rock classico: la 12 corde elettrica di "King of Oklahoma", i vari momenti acustici, il southern rock di "This ain't it", il Neil Young di "Miles" - le ultime due canzoni sono 13 minuti di goduria elettrica. Mai senza sembrare derivativi, anzi: potenza e grazia. Peccato solo che non siano mai passati dalle nostre parti, e che al massimo abbiano fatto qualche data nel nord europa: se li sentite in uno dei tanti bootleg ufficiali, capirete come suonano.
"Weatherwanes" è perfetto, come suono e arrangiamenti: ma dopo il disco tributo alla Georgia (suo stato adottivo), dopo il complicato "Reunions" (recuperate il documentario “Running with our eyes closed” che ne racconta la genesi, prodotto di da HBO), è un altro mezzo capolavoro che ridà fiducia in un genere musicale.