La noiosa ossessione di Taylor Swift per le critiche

Tutti vs Taylor: ma il vittimismo rancoroso, che ha fatto scuola anche in Italia, ha ancora senso?

L’ultima della serie è Charli XCX. Quando il 3 ottobre scorso è uscito “The life of a showgirl”, il nuovo album di Taylor Swift, attesissimo dagli swifties sparsi in ogni angolo del mondo, quantificabili in 281 milioni di follower su Instagram, 92,9 milioni su X, 102,9 milioni di ascoltatori mensili su Spotify, un brano in particolar modo è finito al centro dell’attenzione. Il brano in questione è “Actually romantic” e nel testo Swift si lascia andare a una serie di frecciatine a una collega, che non menziona mai esplicitamente: «Ho sentito che mi hai chiamata “Barbie noiosa” quando la cocaina ti ha dato coraggio». Non ci è voluto molto ai fan - dell’una e dell’altra - per capire che dietro l’allusione si nascondeva proprio quella Charli XCX che a sua volta, lo scorso anno, in “Sympathy is a knife” sembrava aver provocato Swift. La 35enne fidanzatina d’America nel 2023 aveva avuto una breve relazione con Matty Healey, frontman dei 1975 e compagno di band dell’attuale marito di Charli, George Daniel (i due si sono sposati lo scorso mese nella Tonnara di Scopello, in Sicilia). La “Brat girl”, 33 anni, nella sua canzone aveva detto di non gradire la presenza della collega nel backstage dei concerti del suo ragazzo. «Mi hai scritto una canzone dicendo che ti faceva schifo vedere la mia faccia», le ricorda ora Swift. La copertura mediatica di “The life of a showgirl” è stata monopolizzata dalle reazioni scatenate da “Actually romantic”, che Swift non ha mai confermato essere dedicato a Charli XCX (quest’ultima non ha replicato alla provocazione). Confermando quella che da tempo è diventata una cifra di Taylor Swift: la sua noiosa ossessione per le critiche e i conflitti.

Un ingrediente diventato parte del brand

Del resto, questo elemento è diventato parte integrante del suo brand, un ingrediente narrativo indispensabile per ritrarsi come una vittima delle cattiverie dell’industria discografica e dei personaggi che la popolano, dai discografici stessi ai critici, passando per i colleghi. Prima di Charli XCX era toccato a Kanye West (sull’episodio della premiazione interrotta agli MTV Video Music Awards del 2009, quando il rapper fece irruzione sul palco per dire che Beyoncé meritava il premio come “Miglior video femminile” più di lei, Swift ci ha costruito una saga), Katy Perry, Calvin Harris, Kim Kardashian. In “Reputation”, l’album del 2017 con il quale chiuse in soffitta i panni della cantautrice acqua e sapone degli esordi per rivelarsi come una popstar super attenta alla sua immagine pubblica, fece leva sul peggio che i critici dicevano di lei (“dimenticandosi”, mettiamola così, delle critiche positive ai suoi dischi). In “Folklore”, l’album del ritorno alla dimensione acustica degli esordi del 2020, si lasciò andare a velati sfoghi contro Scott Borchetta, il suo primo discografico, accusato di aver venduto i master dei suoi primi dischi al suo nemico numero uno Scooter Braun privandola - secondo Swift - «del lavoro di una vita». In ogni disco, in ogni video, in ogni intervista la popstar torna - più o meno esplicitamente - sul tema delle cattiverie che sostiene di aver subito e di continuare a subire: i nemici invisibili, gli haters, le rivalità con altri artisti o con i media. È come se l’intera macchina swiftiana si nutrisse di questa eterna dialettica tra vittima e vincitrice. Anche in “The life of a showgirl” non manca il vittimismo: prendete “Cancelled!”, ad esempio, che - come lei stessa ha spiegato - «parla delle mie esperienze personali con il giudizio di massa e dell'essere stata al centro di molti momenti drammatici e scandalosi nella mia carriera».

Un espediente che ha fatto scuola (anche in Italia)

Il vittimismo rancoroso di Taylor Swift - che ha fatto scuola: anche in Italia sempre più popstar hanno bisogno di vedere nemici anche dove non ce ne sono, per apparire come delle vittime agli occhi dei fan - sembra in realtà nascondere dell’altro. La sensazione è che Swift attacchi ancor prima di essere attaccata, per difendere in qualche modo il suo regno. E spesso lo fa nei confronti di colleghe più giovani di lei o che comunque rappresentano il “nuovo”. Come la stessa Charli XCX. Nella settimana in cui è uscito “Brat”, lo scorso anno, accompagnato da un gigantesco hype nel Regno Unito, Swift ha pubblicato proprio in esclusiva per il mercato britannico sei nuove riedizioni deluxe del suo “The tortured poets department”: una mossa che a tutti è apparsa come un tentativo di impedire a “Brat” della collega di debuttare al primo posto in classifica. La stessa cosa l’aveva fatta con Billie Eilish negli Stati Uniti. Con Sabrina Carpenter ha attuato un'altra strategia: l'ha praticamente inglobata nel suo mondo, scegliendola come unica ospite di "The life of a showgirl", nel brano che dà il titolo al disco. Il Guardian ha sottolineato questo aspetto strategico di Swift e ha scritto che questo atteggiamento «la fa apparire antiquata, una nave maestosa che gira lentamente accanto alle sue coetanee più veloci e avventurose». Ora, non è proprio così, nel senso che Swift è tutt’altro che una nave maestosa che gira lentamente: lo certifica l’iperproduzione di questi anni, che l’hanno vista riprendere le due parole chiave suggerite dall’ormai ex Ceo di Spotify Daniel Ek agli artisti per sopravvivere nell’era della musica liquida, onnipresenza sulle scene e - appunto - iperproduttività, e applicarle alla sua carriera. Ma di sicuro vedere popstar più giovani e avventurose avvicinarsi al suo impero, azzardarsi a farlo, non è un elemento che piace a Swift. «Taylor Swift avrà pure conquistato le classifiche, ma Charli Xcx ha catturato lo spirito del suo tempo», titolò l’anno scorso sempre il Guardian, mettendo il dito nella piaga.

Ma il vittimismo rancoroso ha ancora senso, per Swift?

Da quando Taylor Swift ha lanciato l’"Eras Tour” dei record, nel 2023 – 149 date, 51 città, oltre 2 miliardi di dollari di biglietti venduti – è stata onnipresente nella coscienza culturale. “The life of a showgirl”, suo quinto album di inediti in cinque anni (ma a questi vanno aggiunti le “Taylor’s Version” di “Fearless”, “Red, “Speak now” e “1989”), infrange record su record: nella prima settimana dall’uscita negli Usa ha venduto ben 4 milioni di copie, spazzando via il dato di 3,4 milioni di copie vendute da Adele nel 2015 con “25”. Il film-evento “The official release party of a showgirl”, al cinema nei tre giorni successivi all’uscita del disco, ha incassato 46 milioni di dollari. Il film dell’”Eras tour” ne aveva incassati 267, nel 2023. Alla luce di tutto ciò è lecito chiedersi: ha ancora senso il gioco del vittimismo rancoroso, oggi che Swift è praticamente un’azienda multimilionaria, la più grande popstar di tutti i tempi per numeri e cifre? La sensazione è che quella costante rimessa in scena del conflitto, la ciclica rinascita dalle ceneri, l’ossessione per la narrazione della propria persecuzione alla lunga rischi di annoiare anche i fan. Lei, ad ogni modo, sottolinea di essere fan della libertà di espressione (e ci mancherebbe): «Ho molto rispetto per le opinioni soggettive delle persone sull'arte. Non sono la polizia dell’arte». Allo stesso tempo, però, è consapevole di un fatto: «La regola dello spettacolo è che se è la prima settimana di uscita del mio album e dici il mio nome o il titolo dell’album, mi stai aiutando». In fondo lo diceva già Oscar Wilde nel “Ritratto di Dorian Gray”, nel 1890: c’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé.

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