Jimi Hendrix, 55 anni fa l’addio
Per gentile concessione degli autori e dell’editore Baldini e Castoldi, che ringrazio, pubblichiamo qui di seguito alcuni stralci dall’introduzione del libro “The story of life – Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix” (nella foto dell’articolo), come tributo a Jimi Hendrix, scomparso il 18 settembre del 1970.
Qui lo speciale di Rockol pubblicato nel cinquantesimo anniversario della morte di Hendrix.
Ci sono storie che tutti gli interessati alla grande epopea del rock hanno sentito raccontare, a volte in maniera distorta, fino alla nausea. Quella forse più facile e ovvia da tramandare riguarda i caduti della musica, a cominciare da Jimi Hendrix: ogni tipo di sventura o vizio di forma sembrano partire da lui, centro dell’universo di cattive informazioni, di dannazioni resistenti ancora a distanza di mezzo secolo. Fra i tanti primati da attribuirgli c’è anche quello di avere spalancato le porte al malvezzo delle fake news: una grandinata interminabile, per ciò che lo riguarda, quasi che il girone delle morti eccellenti, e misteriose, del rock lo avesse inventato lui (in realtà vi aveva già provveduto Brian Jones, poco più di un anno prima). Non dobbiamo tralasciare l’insistenza sul demone della droga – che non fu responsabile del decesso, nonostante titoli e articoli reiterati, ma lo vedremo più avanti – tuttora agitato, quale fantasma e simbolo di tutti i mali.
Chi ha la memoria lunga o abbia avuto modo di leggersi le cronache, i necrologi, i commenti sulle riviste e i giornali dell’epoca sa quante moleste imprecisioni siano state diffuse in merito. Una catena di disinformazioni frutto di un impegno degno di miglior causa: notizie fuorvianti e propalate ad arte, quasi che intossicare il terreno, far cadere sospetti e bugie su un possibile eroe popolare fosse diventata la magica combinazione per scassinare la cassaforte del consenso di un pericoloso quanto ambito mondo giovanile. (…)
«La musica è come il mare, contiene e suscita tutti i sogni di un individuo»: parafrasando Carl Gustav Jung, che di profondità se ne intendeva, possiamo dire che Jimi e la sua chitarra hanno cercato e desiderato il perturbante, sono stati il corpo e il volto della rivoluzione rock, l’azzardo, ma anche la seduzione seriale, che da quel settembre 1970 si è tramandata fino a noi, e per chissà quanto ancora: un’ossessione, da cui nessun chitarrista potrà mai liberarsi.
Hendrix ebbe il dono dell’irrealtà, con quel suo sapere immenso tratto dalle sei corde di una chitarra. Lui, che era cresciuto poverissimo, autodidatta, lontano anni luce da qualsiasi scuola o didattica organizzata, avrebbe saputo erigere infiniti castelli di suono, strada maestra per scalare le cime della fantasia più libera. La benedizione e la maledizione della musica, al tempo stesso: una sovrapposizione, una coesistenza che Jimi ha conosciuto bene.
Jimi è considerato, nelle statistiche, il più fragoroso dei «left behind». Così ha lasciato, almeno fisicamente, questa terra: senza metodo né spiegazioni convincenti.
Il contatto con il mondo che lo avrebbe abbracciato e ospitato, in un tutt’uno tra mestiere e quotidianità, tra passione e professionalità, tra impegno e dissoluzione, fu brusco e magico, fin dal primo approccio con la Londra del settembre 1966, quando sbarca sconosciuto da New York, per esplodere a nuova vita – maestro, fenomeno, profeta – già calamitato, avvinghiato alla chitarra, compagna di ballo per un amore senza sponde né confini. La chitarra urlante, come grido di elaborazione di un dolore conosciuto fin da bambino. Un vincolo appassionato che non si è mai interrotto, non ha attraversato la crisi dei grandi sentimenti. Jimi suonava sempre, ogni giorno: per pratica, per gioco, per passione, per condividere. L’importanza dei suoi lasciti si può ben ricavare dall’entità dell’opera postuma: dal giorno successivo all’addio, infatti, cominceranno a spuntare inediti, nastri, concerti, e quella processione, più unica che rara, non è mai terminata.
La scomparsa di Jimi assumerà, suo malgrado, la dimensione del colossale evento mistico, una sorta di esorcismo da indicare agli occhi del mondo come un parametro dicosa significasse e rappresentasse l’etica rock. Cupio dissolvi, un comandamento, un sogno all’incontrario, affollato di canzoni rilasciate come fiocchi di neve in volo, verso una meta psichedelica.
Hendrix, con il suo avvento, dimostrerà come di colpo fosse diventato semplice l’impossibile: con l’innesto del blues nella psichedelia, il funky a braccetto con il rock più duro e spigoloso, le sonorità ferrose, scarnificate in matrimonio con linee morbide e suadenti di melodie invincibili: tutto in un pugno di canzoni puntualmente riedificate, reinventate sul palco.
Jimi ebbe la buona sorte di crescere su un terreno fertile, di abbondanza come pochi, capace di renderlo ancora più prezioso a ogni passo, in un viaggio esistenziale di coraggio, sperimentazioni e fughe in avanti. Una fucina, la sua, destinata a divenire un crocevia imprescindibile per la colonna sonora dell’epoca e per quella a venire. Un’oasi creativa diffusa, senza ritorno. (…)
«New Skin for the Old Ceremony» è il titolo di un celebre album di Leonard Cohen, che ben sintetizza il percorso tracciato nei quattro anni scarsi in cui la finestra di Hendrix rimarrà spalancata sul mondo della musica. Lui, che aveva saputo dare una nuova pelle al vecchio caro rito del rock, cambiandone le regole, ma solo dopo averle conosciute e apprese, sarebbe stato l’artefice della più radicale mutazione, della più duratura metamorfosi avvenuta nel parco giochi dell’universo culturale rock.
Quella luce sempre accesa, anche nei momenti più cupi della musica moderna, è stata di sollievo, una sorta di àncora garantista a cui aggrapparsi quando la deriva pop e la bieca routine dell’onda mainstream hanno minacciato di sommergerci. Jimi c’era anche in quei frangenti di eventuali lune calanti. Una zattera nella tempesta, per presidiare i territori del vuoto: resistere, resistere, resistere, anche quando l’oblio rischia di inghiottirlo con gli Experience e i tanti capolavori.
Il mosaico dell’opera hendrixiana, a distanza di tanto tempo, regge magnificamente e ci suggerisce quali fermenti vivi possano tramandarsi alla decomposizione dell’arte e all’arte della decomposizione, insegnando che l’Infinito non è oltreconfine. E con Jimi lo si scopre dentro di noi.
In una fase storica in cui il rock e la nuova gioventù musicale cavalcano (anche) l’onda depressiva e distruttiva, Hendrix si muove con passo deciso verso la costruzione,come architetto di figure impossibili eppure ben salde a terra, laddove gli accenti più aspri sanno associarsi, come fosse l’allineamento dei pianeti, a tensioni morbide e invincibili.
La sua rotta – come sottolinea in una conversazione giornalistica – procede indipendente e fiera secondo gli impulsi del cambiamento che lo incalzano e che rivendica lui per primo, sentendo l’urgenza di una sterzata decisiva dal tran tran a cui lo costringono il pubblico oceanico dei concerti e chi glieli organizza, vendendoli a peso d’oro. Ricordiamo che al Festival di Woodstock, come all’isola di Wight, fu suo il set più pagato.
Per lui riportare in vita il passato di maestri del blues come Muddy Waters, Elmore James, John Lee Hooker, Albert King, B.B. King, il suo personale Pantheon, significava pianificare e difendere il futuro, investire sui tempi a venire, e trasferire il meglio di ciò che eravamo stati.
In quei soli tre anni abbondanti e nelle decine che ne hanno contraddistinto la produzione postuma, soprattutto nello studio e nell’approfondimento, Hendrix ha disvelato e risvegliato un sogno, ha contribuito a liberare l’immaginazione e ha saputo amplificare a oltranza i limiti di uno strumento, non tanto per la tecnica adottata quanto per le opportunità di indagare tra le note. Una manifesta superiorità, non solo agli occhi, e alle orecchie, dei devoti. (…)
Se ci fosse un diktat della modernità, un sovranismo delle mode correnti, la cosmogonia sonora hendrixiana sarebbe
l’antidoto più efficace, presente com’era nel suo tempo, senza mai risuonare antica, desueta, polverosa, neppure nella citazione delle origini. Nei suoi passaggi cardine, provare per credere, rintracciamo oscurità primordiali e insieme ilsol dell’avvenire in un magma enciclopedico che sarà frutto del mestiere, ma ancor più dell’istinto, del battito animale.
L’ammutinamento della Fender e della Gibson resta sotto gli occhi di tutti, una liturgia che ogni grammatica elettrica ha assunto alla stregua di un postulato, l’alternativa alle sacre scritture del rock: Jimi è entrato nel futuro portandosi dietro tutto il passato. Ha conquistato l’orizzonte partendo dalle orme dei grandi.
Nelle parole di Hendrix, quello che emerge e sobbalza rispetto alla medietà circostante è l’autenticità, una soave verità, che non veniva contagiata da troppe macchine, da trucchi, da calcoli e strategie (quelli, semmai, li fecero altri).
L’enigma che ci trasmettono quei suoi ultimi giorni di nomadismo introspettivo porta un sapore ancora più amaro proprio per questo: per la nostra incapacità di mettere in relazione il sacro e il profano, linguaggi e testi anche semplici con labirinti impraticabili, l’inferno parossistico del rumore bianco con i petali sparsi nel giardino dell’Eden, per un inebriante festival dei sensi.
Prima di staccare la spina, prima dell’ascensione finale, Jimi, secondo le cronache di chi gli fu prossimo, in quei
giorni sembrava un’anima alla prova, nel bisogno di risposte che nessuno poteva dargli, neppure la musica o gli studi nuovi di zecca dove scorrazzare giorno e notte.
Per sopravvivere e anzi generare tanta bellezza, Hendrix dovette assorbire e metabolizzare di tutto, divagando nelle praterie della musica dei Sixties, forte di quello slogan tanto blando quanto inappuntabile, secondo cui «i posti che abbiamo attraversato vanno lasciati meglio di come li abbiamo trovati». Così avvenne per Jimi, abitato dal mondo, anziché proteso ad abitarlo.
Per questo lo sentiamo smarrito, inquieto, fiducioso in un futuro migliore, anche se la gloria e i trionfi potevano essere un buon rimedio alle tensioni e alla ricerca di un cammino diverso, di quei pezzi di vita fuggitivi: una condizione tradita con i suoi interlocutori, mai evidenziata tramite lo strumento della musica, incapace di scendere sotto il livello di guardia, neppure alle repliche finali. (…)
Quanto covasse Jimi, nelle settimane e nei mesi finali, non lo sapremo mai esattamente,dato che tutta la massa di materiali postumi pubblicati è da considerare abbozzi, linee guida, poco più che appunti, sembianze di materie prime cui il tocco dell’assemblaggio, della gestione e dell’organizzazione terminale avrebbe fornito la giusta messa a punto e la desiderata quadratura. Un orizzonte come quei film dove si ferma e si sospende tutto, prima che riparta la colonna sonora e si ricominci a vivere. Il cantiere aperto, l’invasione compiuta. (…)
Essere artisticamente incorruttibile, abilissimo, nella sua odissea infinita tra un palco e un hotel, a ricreare e a rigenerarsi attraverso frammenti musicali eterogenei, Jimi insegna come il suo esilio da cittadino di nessun mondo sarà in realtà un fluido sacro e utile a unire i puntini di località ignote fino a rendere quei suoi dischi, quel suo idioma, una patria: l’approdo sicuro per le moltitudini del rock.
Hendrix dalla sua metaforica camera oscura traccia con quella chitarra dissenziente un road movie nel caos, a determinare la realtà come un’apparizione sensazionale: ciò che i giapponesi descrivono con il termine «Wabi-sabi», la bellezza malinconica.
Jimi spiega, tramite le sue parole, e i suoi dubbi, come la forza della musica sia anche saper rievocare gli spettri che tutti noi abbiamo dentro e che devono in qualche modo venire fuori.
Si riproduce così, per ogni fruitore, un confine proprio: «Ascoltate la musica con le vostre orecchie», ammoniva Stravinskij.
La sua furibonda missione di artista onnivoro e insaziabile, posseduto dalla musica, affiora prepotente nel diario degli ultimi giorni. Jimi suonava sempre, anche quando non c’era un ingaggio o una seduta di studio, per sé o per il pubblico, poco cambiava. Tutto questo non si trasformerà in accademia, ed è come se a ogni nota Hendrix piantasse un albero, da un assolo iniziasse a crescere un prato. «La bellezza è armonia e proporzione», diceva Leonardo; Jimi usciva spesso e volentieri dai margini, ma sempre vi rientrava da provato, inattaccabile professionista.
Anche negli ultimi tornanti di vita, il desiderio era quello di suonare: non ci si può stancare davvero, a meno di essere stanchi della vita. Esistono le registrazioni, anche degli ultimi set, a dimostrarlo: con le slabbrature e l’adrenalina, gli appannamenti e i tuoni, le pause e il survoltaggio ad accompagnarci in quella ribelle, perpetua Babele, direzione Infinito.
In una stagione dove le leggi della comunicazione seguivano norme distanti anni luce dalla sintassi imposta dai social, la figura di Hendrix si staglia maiuscola e inaffondabile: un trionfo delle immagini ben prima che si affermasse una civiltà che con le immagini ha tracimato, sommergendo le nostre esistenze.
Un morto che non morirà mai del tutto, il destino di una leggenda: così si disse di Hendrix già all’inizio degli anni Settanta, ma nessuno avrebbe potuto pronosticare un simile radicamento, ancora oggi suggellato da dischi, pubblicazioni e iniziative che non hanno uguali nel firmamento della musica per nessun demiurgo (s)comparso dai primordi del rock’n’roll a oggi.
Si riconosce in Hendrix, secondo regole di osmosi transgenerazionali, la peculiarità di un artista puro e fragile come un cristallo, con la gioia che tramite le sue dita andava ad arricchire un linguaggio rock, povero e schematico, ancora bisognoso di iniezioni di fiducia.
Unico, anche nei frangenti meno popolari e mitizzati, nel riempire il rumore e i silenzi di nuovi contenuti, con la sua musica, Hendrix con gli Experience, come veri dottori dei suoni, si era industriato nell’amalgamare le diverse culture a disposizione, una galleria di stili che nasceva dalla storia tragica di Jimi, andava a pescare nel fondo dell’anima e dagli occhi incantati dalle favole. Attratti dal gorgo e stregati dal fascino dell’onda lunga, in quella musica, matrice e motrice di una solenne disarticolazione del potere pop, convivono, come nell’incubatrice di un film di Cronenberg, lezioni di libertà, di trasgressioni, di rispetto, orazioni elettriche e chiamate al futuro.
In un possibile, psichedelico paese delle Meraviglie, popolato da fantasie e canzoni mai sentite, con i dischi di quei tre anni si sono alzate delle barricate salvifiche, un indice di cambiamento culturale in cui vedere Hendrix e la sua Stratocaster motore e cerniera, un nuovo mondo al centro per volarci dentro. Inscritto tra il monumentale esordio dell’autunno 1966 e il capolinea del settembre 1970, inizio e fine, con un cerchio che si chiude, sempre a Londra, città che ha reso la materia hendrixiana brulicante e vera, sangue, fosforo e carne fra tonnellate di note e di watt.
A ogni scoperta restituita oggi, soprattutto con i dischi dal vivo che hanno continuato a uscire copiosamente, abbiamo ripreso a sbarrare gli occhi, sbigottiti, nella conferma che i suoi live non conoscono né temono la fatica, l’usura, alimentati come sono da impulsi erotici ed erogeni, indenni nonostante il tanto tempo da polvere e ruggine: perfetti a gestire un retaggio che andava gettato alle spalle per librarsi oltre, nell’alto dei cieli.
Uno come Jimi Hendrix ha dato e ha offerto tantissimo nel mezzo secolo intercorso dalla sua scomparsa a oggi, era uno che amava la vita, in ogni sua declinazione, e sapeva ascoltarla, fino agli abissi. Il mercato, nel frattempo, e con esso gli adolescenti di ieri, hanno avuto modo per accorgersi dei tesori e di cosa avesse depositato a favore della storia.
Un artista, persino il più derivativo, non sarà mai un mero cronista: conta se aggiunge, modifica, se è capace di coniare, ideare, plasmare, non accontentandosi di essere un replicante. Hendrix, catturato dal groove in giovane età, ha saputo agire come una lente di ingrandimento, antropologo del suono mai elitario, anzi decisamente popolare, acquisito dalla dittatura dell’attualità: spartiacque generazionale, insurrezionalista e predicatore, apolide, o forse pluripolide, del rock sino ad allora conosciuto.
Perché nella musica, come nella verità, non puoi stare dietro o di fianco: devi starci irrimediabilmente dentro.