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"Young Americans" fece capire che David Bowie poteva fare tutto

Dal rock al soul: cinquant'anni fa la clamorosa svolta dell'artista. La storia del disco.
"Young Americans" fece capire che David Bowie poteva fare tutto

Sì, ovvio, il capolavoro “Ziggy Stardust” e “Aladdin Sane”, gli album della consacrazione dell’era glam rock che aveva pubblicato tra il 1972 e il 1973 calandosi nei panni dell’alieno caduto sulla Terra, prima di farlo “morire” sul palco con il leggendario show all’Hammersmith Odeon di Londra del luglio del ’73. Sì, certo, le spiazzanti rivisitazioni di “See Emily play” dei Pink Floyd, “I can’t explain” degli Who e “Where have all the good times gone” che aveva inciso nel 1973 per l’album di cover “Pin ups”. E sì, chiaro, la svolta proto-punk di “Diamond Dogs”, l’album che aveva pubblicato nel 1974, battezzando stavolta un altro alter ego, Halloween Jack. Ma se ci fu un momento nella carriera di David Bowie in cui diventò evidente che l’artista britannico poteva far suo qualunque genere musicale, piegandolo alla sua volontà, quel momento coincide con l’uscita di “Young Americans”.

La genesi dell'album

Era l’agosto del 1974 quando la voce di “Space Oddity” si mise in testa di voler fare un album di black music. E di farlo non nel Regno Unito, ma nel cuore pulsante della musica nera, Philadelphia, negli Stati Uniti. Fin dalla sua prima visita oltreoceano, nel gennaio del 1971, Bowie aveva raccontato di essere stato attratto da quella che lui stesso considerava la «sottocultura» locale: dall’icona di Hollywood James Dean alla musica rock’n’roll (i Velvet Underground avevano ispirato “Queen Bitch”, uno dei brani dell’album “Hunky Dory”), passando per gli scrittori della Beat Generation come Jack Kerouac e William S. Burroughs. La black music rientrava in questa categoria. Quando si trattò di illustrare ai suoi più stretti collaboratori il progetto, Bowie usò il termine «plastic soul», «soul music di plastica», l’espressione con la quale i musicisti neri negli Anni ’60 descrivevano i bianchi che suonavano il blues. Lo chiamò così perché - avrebbe spiegato lui - «il mio “Young Americans” era di plastica, deliberatamente»: con l’album, il cantautore voleva esprimere la visione del mondo di una nuova generazione di giovani statunitensi nello stesso modo in cui aveva incarnato gli ideali della comunità underground del Regno Unito fino ad allora.

L'idea iniziale e le prime difficoltà

L’operazione era ambiziosa: l’intenzione di Bowie era quella di andare a registrare il disco ai Sigma Sound Studios, il centro nevralgico della scena cosiddetta Philadelphia soul, le sale fondate pochi anni prima dall’ingegnere del suono Joseph Tarsia e diventate la sede dell’impero r&b facente capo a Kenneth Gamble e Leon A. Huff, duo di produttori e autori dietro a successi come quelli di Wilson Pickett, Nancy Wilson, Dusty Springfield e soprattutto dei leggendari MFSB. L’acronimo sta per “Mother Father Sister Brother”: il gruppo era una vera e propria superband che radunava una trentina di turnisti dei Sigma Sound Studios che ad un certo punto cominciarono a pubblicare singoli di successo come gruppo, a partire dalla programmatica “TSOP (The sound of Philadelphia)”, oltre un milione di copie vendute negli Stati Uniti. Alla fine, però, Bowie dovette accontentarsi di avere a disposizione un solo musicista della MFSB: il suonatore di conga Larry Washington. A quel punto si mise al telefono e chiamò a Philadelphia alcuni musicisti di New York: lo raggiunsero il chitarrista Carlos Alomar, il bassista Willie Weeks, il batterista Andy Newmark e il sassofonista jazz David Sanborn, talento al quale chiese di suonare un genere musicale al di fuori della sua comfort zone (una mossa che avrebbe ripetuto quarant’anni dopo, quando coinvolse Donny McCaslin nelle session di “Blackstar”). Con loro anche i coristi Ava Cherry, Luther Vandross e la moglie di Alomar, Robin, oltre al pianista Mike Garson, l’ultimo superstite degli Spiders Form Mars.

La dipendenza dalla cocaina

Le sessioni, coordinate dal produttore Tony Visconti, partirono l’11 agosto del 1974 e tutto si svolse nel giro di due settimane, nel corso delle quali Bowie - in piena dipendenza da cocaina - si immerse completamente nella musica soul e s’inventò un nuovo alter ego, The Gouster, un termine con il quale si indica un ragazzo di strada alla moda. Visconti avrebbe ricordato: «Fu concordato che avremmo dovuto registrare dal vivo, niente sovraincisioni. Ma David voleva anche registrare la sua voce dal vivo nella stessa stanza. Ciò rappresentò un grosso problema perché gli strumenti erano molto più forti della sua voce, quindi dovetti preparare una speciale tecnica di microfono che annullava la band ma registrava la sua voce. Ciò richiedeva due microfoni identici posizionati elettronicamente fuori fase».

Springsteen arrivato in autostop e l'incontro con John Lennon

Le registrazioni furono così produttive che dal disco rimasero fuori diverse canzoni: tra queste pure una cover di “It’s hard to be a saint in the city” di Bruce Springsteen, che arrivò ai Sigma Sound Studios di Philadelphia dalla sua Asbury Park facendo l’autostop e che successivamente scoprì che Bowie non aveva incluso la sua canzone nell’album. Nel disco finì invece una cover di “Across the universe” che Bowie registrò per caso dopo aver conosciuto John Lennon, quando per completare il disco di spostò da Philadelphia al Record Plant di New York. Da quell’incontro nacque “Fame”, destinata a diventare la hit del disco: «Dopo esserci incontrati in un club di New York, abbiamo trascorso parecchie notti a parlare e a conoscerci prima ancora di entrare in studio. Quel periodo della mia vita non è per niente chiaro, molto è davvero confuso, ma abbiamo trascorso ore infinite a parlare di fama e di cosa significhi non avere più una vita propria - avrebbe raccontato Bowie - quanto vuoi essere conosciuto prima di esserlo, e poi quando lo sei, quanto vuoi il contrario».

“Young Americans” uscì il 7 marzo del 1975. La critica lo bollò come il disco «con il suono più commerciale di Bowie fino ad oggi». Ma una nuova trasformazione era alle porte: Berlino chiamava.

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