Dieci anni di “Costellazioni”: un album provinciale e spaziale

“Costellazioni”, il terzo disco de Le Luci della Centrale Elettrica, compie dieci anni. E riascoltandolo oggi non si ha più solo la sensazione, come avveniva ai tempi, ma la certezza che si sia davanti al miglior album del progetto musicale con cui Vasco Brondi produceva musica in quel periodo e che ha abbandonato nel 2019, evolvendosi. “Canzoni da spiaggia deturpata” e “Per ora noi la chiameremo felicità”, i primi due album de Le Luci, è come se facessero parte di un unico grande blocco, diretto, scarno e punk, mentre “Terra” del 2017, nonostante sia ancora sotto l’insegna “Luci della Centrale Elettrica”, è già più un disco alla Vasco Brondi, con arrangiamenti e invenzioni musicali più particolari e aperte.
“Costellazioni” rimane in mezzo a queste due coordinate ed è il capitolo più alto di quel frangente musicale perché riuscì ad assorbire tutto l’immaginario costruito da Brondi fino a quel momento e a elevarlo, portandolo sulla Luna, in una nuova dimensione di racconto e sonora. Fu ed è un disco di punti lontanissimi che si congiungono, e anche per questo oggi passa molto bene il test del tempo. Il 2 dicembre lo risuonerà interamente all’Alcatraz di Milano. Brani come “Le ragazze stanno bene”, “I destini generali” (di cui è stata pubblicata una nuova versione con Cosmo), “La Terra, l'Emilia, la Luna” sono tra i gioielli di tutta la discografia di Brondi, e infatti spuntano spesso anche nelle scalette di questi ultimi anni. L’album è “geografico”: parla di viaggi spaziali e intergalattici, di futuri difficili e inverosimili, ma allo stesso tempo di storie a pochi passi di distanza. Cala dentro la musica racconti di città, di provincia e in generale di un'umanità che ha compreso che l’unico modo per non avere paura del buio è entrarci dentro e illuminarlo. Proprio come dicevano i CCCP: “non a Berlino, ma a Carpi”, Brondi ci ha spronato a riflettere sul fatto che non bisogna essere a New York o chissà dove per vedere la bellezza o per essere nel fulcro della Terra, perché tutti noi possiamo essere al centro del nostro piccolo grande universo. E così i personaggi delle canzoni partono, arrivano, intraprendono viaggi interstellari o di soli 40 chilometri. Trovano stupende delle cose che in realtà non lo sono e cercano di realizzarsi nonostante le difficoltà. Arrivò alla seconda posizione nella classifica Fimi degli album più venduti in Italia.
“È un disco sul futuro, per sdrammatizzare il domani, per ballare sotto le bombe: avevo l’esigenza di raccontare storie che facessero luce, che affrontassero il mondo partendo da un’accettazione di quello che le persone hanno intorno. È così che si riscopre il valore delle piccole cose, delle piccole felicità della provincia, ma che in realtà sono gioie spaziali, sono ovunque e di chiunque”, raccontò ai tempi l’artista. Che attraverso un recente post ha ricordato: “Dieci anni di un disco che ha portato per me un grande cambiamento. Dopo i primi due album in cui avevo trovato una voce e quattro anni di silenzio, ero tornato da un viaggio solitario lungo sei mesi e mi sono rimesso a scrivere. Ne è uscito ‘Costellazioni’, un disco provinciale e spaziale. Lo risuoniamo all’Alcatraz, la città dove l’ho scritto in un appartamentino di Lambrate prima di ri-trasferirmi a Bologna e ri-ri-trasferirmi a Ferrara. Era l’inizio della fine della mia gioventù. È stata una grande festa, uno scontro tranquillo. Senza ironico distacco, senza disincanto. Solo immenso smarrimento e immensa libertà”.
Anche Federico Dragogna, che fu il produttore dell’album, ha dedicato un post al progetto: “Ho questo ricordo di me e Vasco sul balconcino della sua cucina a Ferrara, dopo una cena punitiva e monacale come amiamo fare noi, mentre cerchiamo di incastrare il testo torrenziale di ‘40 Km’ in quattro accordi. Fa un caldo surreale, abbiamo trent’anni e siamo lì a cantare a due voci versi lunghissimi e struggenti davanti a un pubblico di persiane chiuse. La discografia di oggi avrebbe chiamato quei giorni a Ferrara passati a inventare 'Costellazioni' ‘una session’ - includendoci così in un più ampio ed efficiente sistema di produzione culturale, quello che appunto ci presta le parole inglesi per cose italiane con cui abbiamo qualche problema o che nascondono una qualche vergogna, come appunto spendere le proprie giornate a decorare canzoni. Quella vergogna credo si debba superarla, conservandone però un poco dentro - e il fatto che dormissi su un materasso di spugna in mezzo ai microfoni forse aveva a che fare con questo. Si lavorava sempre, tranne poche ore di sonno e le pause per i pasti, anche perché non sembrava lavoro, pareva piuttosto di costruire un’astronave con un amico, con rigore e improvvisazione, svolte drastiche e lentissimi lavori di lima”.