È finalmente arrivato il momento di riscoprire Cyndi Lauper
In principio fu l’inserimento della sua “Time after time” in una delle scene più iconiche della seconda stagione di “Stranger things”, quella del ballo tra Dustin e Nancy che chiudeva la serie: è stato anche merito de i Duffer Brothers e della loro serie fenomeno della Generazione Z se la hit contenuta nell’album “She’s so unusual” del 1983 è arrivata a superare su Spotify quota 780 milioni di streams. Nel 2022, poi, fece notizia il raggiungimento di quota 1 miliardo di visualizzazioni su YouTube da parte del videoclip di un’altra hit contenuta in quel disco, quella “Girls just want to have fun” diventata dopo il MeToo un vero e proprio inno per le nuove femministe. Lo scorso anno a celebrarla ci ha pensato un documentario sulla sua parabola, dagli esordi fino ad oggi, di cui Paramount+ ha appena acquistato i diritti: “Let the canary sing”, diretto dall’australiana Alison Ellwood e atteso negli Usa sulla piattaforma di streaming il 4 giugno prossimo, ha suggellato una carriera straordinaria, da oltre 50 milioni di copie vendute in tutto il mondo, facendone rivivere le tappe fondamentali sugli schermi dei festival cinematografici più importanti a livello internazionale. Il tributo più recente gliel’ha invece riservato la collega Nicki Minaj: la scorsa settimana la femcee ha fatto salire Cyndi Lauper sul palco del Barclays Center di Brooklyn durante una tappa del suo “Pink Friday 2 World Tour”. Insieme hanno cantato dal vivo “Pink friday girls”, brano che Nicki Minaj ha realizzato campionando la stessa “Girls just want to have fun”: in 20 mila si sono lasciati andare sulle note del tormentone del 1983. È così, tassello dopo tassello, che Cyndi Lauper si sta riprendendo pian piano tutto ciò che negli ultimi trent’anni le è stato negato, tra omaggi inaspettati e rivendicazioni.
Nella metà degli Anni ’80 c’era una sola regina del pop. E non era Madonna. L’impatto che Cyndi Lauper, partita da Brooklyn alla conquista del successo (“Eravamo poveri. Lì trovavi di tutto. A partire dagli italiani. Ascoltavamo Mario Lanza ed Enrico Caruso”, racconta nel documentario la sorella Ellen - del resto era di origini italiane, per la precisione siciliane, anche mamma Catrine), aveva avuto sul music biz tra il 1983 e il 1984 è testimoniato da quello che ha raccontato Lionel Richie a proposito dell’esclusione di Madonna dall’all-star team di USA for Africa che nel 1985 si ritrovò agli A&M Studios di Hollywood per registrare “We are the world”. La futura Regina del Pop non fu contattata, nonostante fosse reduce dal successo travolgente di “Like a virgin”, semplicemente perché le fu preferita proprio Cyndi Lauper, che all’epoca sta vivendo un momento d’oro. Cynthia Ann Stephanie Lauper, questo il vero nome della popstar, era piombata nelle classifiche statunitensi - e poi mondiali - due anni prima, finita a incidere un disco pop dopo essersi fatta le ossa negli Anni ’70 in cover band dei Jefferson Airplane, dei Led Zeppelin, dei Bad Company, fondando poi una band tutta sua, i Blue Angel. Durò poco. Ben presto il gruppo si sciolse e Cyndi per mantenersi dovette mettersi a fare la commessa, continuando però a coltivare il sogno di vivere di musica.
Fu in un locale newyorkese, nel 1981, che la Lauper incontrò quello che di lì a poco sarebbe diventato il suo nuovo manager, David Wolff: riuscì a procurarle un contratto con la Portrait Records, sottoetichetta della Columbia Records. Ma per arrivare a incidere l’album che le cambierà la vita, la cantante dovette trascinare in tribunale il suo ex produttore, che dopo l’esordio con la band Blue Angel non voleva che Cyndi intraprendesse una carriera da solista: “Lasciate che il canarino canti”, sentenziò il giudice, liberando la cantante da quei vincoli. Ecco spiegato il titolo del documentario, che in Italia arriverà su Paramount+ il giorno seguente rispetto all’uscita negli Usa, il 5 giugno. È proprio il documentario a raccontare la vera storia di quella “Girls just want to have fun” che nell’autunno del 1983 cominciò a risuonare letteralmente ovunque. La canzone era stata incisa quattro anni prima, nel 1979, da Robert Hazard, protagonista del circuito new wave statunitense di quegli anni (di lì a poco avrebbe fondato i Robert Hazard and the Heroes, band con la quale avrebbe scritto alcune delle pagine più interessanti del rock del circuito di Philadelphia degli Anni ’80 - è scomparso nel 2008 a soli 59 anni). Ma il divertimento al quale alludeva la versione originale era quello sessuale. Non esattamente la stessa interpretazione che Cyndi diede al brano, trasformandolo in un inno femminista di emancipazione: “Girls just want to have fun”, cantava, con quella voce stridula, da bambina, saltellando dentro le bozzanghere dei vicoli di Brooklyn, circondata da ragazze di ogni etnia. “Mi assicurai che fossero incluse donne di ogni ceto ed età affinché tutte le ragazze potessero riconoscersi. Ero stufa di vedere video con idee prestabilite: in quelli di musica r&b dovevano esserci per forza solo persone di colore, in quelli di musica rock per forza solo bianchi. E indossai un abito rosso, perché è il colore del potere”, racconta Cyndi Lauper nel documentario.
La parabola di consumò velocemente: giusto il tempo di spedire in cima alle classifiche successi come la stessa “Time after time”, “She bop”. E poi ancora, nel 1985, “The goonies ‘r’ good enough” (iconica colonna sonora del film cult “The Goonies”) e l’anno seguente “True colors”. Canzoni sbagliate, scelte forse un po’ troppo coraggiose e audaci: ciò che è successo dopo non conta. “Non volevo permettere a nessuno di dirmi cosa dovevo o non dovevo fare”, rivendica lei. Quello che conta è che a 70 anni Cyndi Lauper si prepara ad essere finalmente riscoperta e “riabilitata”. Il 26 giugno la popstar farà uno show esclusivo con i suoi più grandi successi alla Royal Albert Hall di Londra. Tre giorni dopo, il 29 giugno, salirà sul palco del festival di Glastonbury, tra gli appuntamenti più attesi della stagione estiva: ad ascoltarla ci saranno 200 mila spettatori.