Kurt Cobain. Parlandone da vivo
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È piuttosto evidente ormai: Kurt Cobain ci piace più da morto che da vivo, ed è un vero peccato.
L’articolo potrebbe già chiudersi qui. E invece eccoci, ancora una volta, a fare i conti con quell’ostinata insistenza di Cobain nell’essere morto.
C’è qualcosa di più inutile?
Questa volta sono trent’anni tondi; un lasso di tempo in cui, nel nostro ricordo viziato dalla nostalgia, quel che lui non è stato ha preso il sopravvento su quel che è stato.
La letteratura post mortem che si è accumulata in questi anni, quella che indaga, a volte goffamente, sulle modalità della sua scomparsa, ha come oscurato il suo immenso lascito artistico. Non solo: ha messo in secondo piano lui, la sua personalità, addirittura la sua voce; quella che cantava, certo, ma anche quella delle numerose interviste rilasciate alla stampa; quelle che usava per fare esercizi di stile, o per sfanculare un po’ chi aveva di fronte. Abbiamo dimenticato le varie sfaccettature della sua personalità, preferendolo solo junkie e depresso; abbiamo messo da parte tutto ciò che, concretamente, lo ha reso un’icona generazionale, come per esempio i suoi testi, che, agganciati a quegli urli quasi trascendentali, hanno fatto sentire una moltitudine di giovani persone meno sole. Ci limitiamo a ricordare quelle due o tre frasi a effetto, senza sforzarci di capire cosa lui volesse comunicare davvero; un destino che, d’altra parte, lui aveva abbondantemente anticipato in ‘In Bloom’, facendo riferimento a chi cantava le sue «canzonette carine» senza conoscerne il significato.
«He knows not what it means.»
Insomma: abbiamo deciso che Cobain è solo il morto per eccellenza di Seattle, relegando la sua eredità a un pietoso simulacro del dolore.
Se il pietismo che accompagna il suo ricordo può essere in parte comprensibile, c’è qualcosa che, invece, non si dovrebbe avallare: la convinzione che lui sia stato la vittima sacrificale di forze maggiori; che abbia subìto passivamente la volontà di persone che orbitavano intorno alla sua vita: manager, discografici, sua moglie. C’è solo una cosa che lui ha subito passivamente: l’eroina. Chi lo conosceva bene, lo sa.
Cobain non faceva mistero di avere una personalità depressiva (provaci tu a crescere ad Aberdeen), ma era senz’altro segnata dal conflitto interiore che derivava da un successo troppo repentino. Dal momento in cui il video di ‘Smells Like Teen Spirit’ era passato per la prima volta su MTV, tutto era cambiato. Nell’arco di un paio di mesi, da band suonata nelle college radio, con al massimo trentacinquemila copie vendute, i Nirvana erano diventati quelli che scalzavano Michael Jackson dalla prima posizione della classifica americana. Kurt non aveva molti mezzi per affrontare quella deflagrazione, e sapeva essere molto contraddittorio circa quel che voleva e non voleva. Una cosa, però, la voleva di certo: il consenso popolare.
Partiamo da un dato di fatto: Cobain era un leader. Nella band, era il principale compositore di musica e testi, il primo chitarrista, la voce. Aveva l’ultima parola su ogni aspetto artistico: sceglieva, a volte realizzava, l’artwork delle copertine, disegnava gli storyboard dei videoclip e ne assisteva il montaggio. Soprattutto, aveva ben chiare quali fossero le scelte da fare e da non fare nell’ambito della promozione: era lui a decidere con quali giornalisti parlare o no, quali fossero i singoli estratti da un album, come trasmettere i messaggi nei comunicati stampa (è noto il suo timore nel far emergere i Nirvana come una band troppo politicizzata). Infine, era lui a decidere chi entrasse e uscisse dal gruppo, cosa che mediamente decretava senza proferire parola. Jason Everman, l’ex chitarrista silurato, lo sa bene.
Questo aspetto della personalità di Cobain, quella del decision maker, anche un po’ stronzo, è messa in evidenza ormai da ogni suo biografo credibile, ma viene evidenziato in un libro in particolare: quello scritto dal suo ex manager, Danny Goldberg (“Serving the Servant: Ricordando Kurt Cobain”, Harper Collins, 2019). Goldberg, uno che aveva lavorato a fianco di Peter Grant negli anni d’oro dei Led Zeppelin, spese a stretto contatto con Cobain gli ultimi tre anni della sua esistenza: quelli cruciali, che abbracciano la pubblicazione di “Nevermind”, “In Utero” e l’“Unplugged”, il matrimonio con la Love e la nascita della figlia Frances. Era il novembre del 1990 quando i Nirvana si presentarono per la prima volta nel suo studio di Los Angeles; durante l’incontro, Cobain non aveva parlato per quindici minuti. Solo due parole uscirono dalle sue labbra: «Assolutamente no», in risposta alla domanda: «Avete intenzione di rimanere con la Sub Pop»? Era in quel momento, che Goldberg aveva capito chi comandasse nel gruppo.
Altro particolare non da poco: fu di Cobain la decisione di non avere nulla a che fare con la produzione del film “Singles, l’amore è un gioco”. Rifiutò sia di comparire nella pellicola, sia di cedere la sua musica. «Ho declinato l’invito prima di chiedervelo, ragazzi. Perché sono il leader della band», disse, scherzando ma non troppo, in un’intervista del 1992.
C’è un altro errore di valutazione che si fa, nel ritenere Cobain una vittima del sistema: quello che riguarda il rapporto con sua moglie. Tralasciando le teorie complottistiche che la vedrebbero responsabile della sua morte, teorie cui ciascuno è libero di credere o non credere, chi lo conosceva bene aveva ben chiara la sua indipendenza artistica da Courtney. Sempre nel libro di Goldberg si ricorda un episodio molto rappresentativo a riguardo. Quando mancavano pochi mesi all’uscita di “In Utero”, la Love tenne un concerto solista al Cafè Largo di Los Angeles, e incluse nella setlist anche una versione acustica di ‘Pennyroyal Tea’. Il giorno seguente, Kurt chiamò Goldberg, e lo pregò di dissuaderla dall’incidere quella canzone per il nuovo album delle Hole. «Quella è una canzone dei Nirvana», disse, con tutta la sicurezza del mondo.
E però, Kurt era innamorato di Courtney; anche di questo ci dimentichiamo. Poche cose lo sconfortavano quanto la negatività che circondava sua moglie, un atteggiamento che lui riconduceva a una dilagante misoginia. È questo, si può dire, il filo conduttore di “In Utero”.
Un altro aspetto eloquente della personalità di Cobain ha a che fare con la gestione patrimoniale della band. C’è stato un momento, circa sei mesi dopo l’uscita di “Nevermind”, in cui Cobain volle che gli fosse riconosciuto il 100% delle royalties sulle sue canzoni (precedentemente venivano ripartite in parti uguali con Grohl e Novoselic). Non solo: questo accordo doveva essere retroattivo. Alla fine, si decise che l’accordo avrebbe escluso il singolo di maggior successo, ‘Smells Like Teen Spirit’, il che rese tutto più accettabile.
Cose di questo genere, di solito, portano a molti screzi all’interno di una band; a volte, ne causano lo scioglimento. Non fu il caso dei Nirvana. Fa sorridere, infatti, pensare che l’unico momento in cui rischiarono davvero di sciogliersi risaliva a due anni prima, durante quell’indimenticabile serata al Piper di Roma; quella in cui Cobain, colto da raptus, si era arrampicato su una pila di amplificatori con tutta l’intenzione di buttarsi di sotto. In una spassosissima intervista, Daniela Giombini, l’allora promoter e tour manager dei Nirvana in Italia, disse che lui voleva buttarsi su una disco ball del valore di cinquanta milioni di lire: un’immagine sublime, a suo modo.
Quella sera, dopo aver fracassato diverse cose, tra cui la sua chitarra, Cobain aveva minacciato di fracassare anche la band.
Come si sa, questo non avvenne.
Il futuro era ancora tutto da scrivere.
Valeria Sgarella, milanese, è giornalista professionista dal 2000. Ha lavorato per quasi vent’anni nelle radio private come autrice e speaker, con una parentesi di cinque anni a MTV Italia. Ha scritto di musica per “Rolling Stone”, “Humans Vs. Robots”, “Louder”. Ha pubblicato libri inerenti al movimento grunge e la città di Seattle: “Andy Wood, L’inventore del Grunge” (Area51/Ledizioni), edito anche in lingua inglese; “Oltre i Nirvana”, storia della Sub Pop Records (Edizioni del Gattaccio), e “Seattle. La città, la musica, le storie” (Odoya). Ha curato testi e traduzione della ristampa italiana di “Grunge is dead” di Greg Prato (Odoya, 2022).