Steve Albini ha sempre appiccato incendi dolosi. Se ne è andato a 61 anni. Di gettare acqua sulle fiamme non ne è mai stato capace, ma come ha raccontato al The Guardian, in un bellissimo e intimo articolo long form uscito l’anno scorso, ha saputo analizzare con più severità il suo passato dinamitardo. Sono diverse le ragioni del perché venga considerato e venerato come uno dei protagonisti più importanti (anche se fuori da una certa cerchia è stato sottovalutato e purtroppo poco conosciuto) della scena rock internazionale negli ultimi trent'anni e oltre: i suoi lavori come musicista, con band seminali come Big Black, Rapeman e Shellac, e come mago dello studio, con Nirvana e Pixies su tutti, ma anche con una miriade di band indipendenti di tutto il mondo, Italia compresa (Uzeda, Three Second Kiss e Zu per citarne alcune) parlano da soli.
Quei suoni noise, industrial e hardcore sono lì, a ricordarci ancora una volta la sua forza propulsiva. Il sesto disco degli Shellac, intitolato “To All Train”, uscirà per Touch & Go il 17 maggio e arriva a distanza di dieci anni da “Dude Incredible”. Sarebbe significativo, come ha scritto Nicholas David Altea di Rumore, che quest’anno, dal palco del Primavera Sound, “casa” dei concerti improvvisati degli Shellac, venisse comunque sparata la loro musica, per celebrarla. “Probabilmente a lui starebbe sul cazzo questa sorta di idolatria, ma sarebbe il minimo. Gli Shellac al Primavera ci saranno sempre”, ha scritto sui social il giornalista.
Nel tempo a rendere unico il musicista di origini italiane, nato in California, ma residente a Chicago, tuttavia, è diventato anche l'atteggiamento. Un duro, un puro. Un artista, in primis un uomo, che non ha mai tenuto a freno la lingua, amante passionale della provocazione e dello scontro dialettico. Albini è stato famigerato nel mondo rock e punk per aver criticato aspramente l'industria musicale, come evidenziato nel suo discusso saggio del 1993 “The problem with music”, ma anche gli stessi festival "alternativi" come il Lollapalooza nonché per i giudizi senza pietà spesso riservati a molti suoi illustri colleghi: dai Sonic Youth, colpevoli a suo dire di essersi "venduti", ai Pixies, definiti "una band che al suo meglio fa del blando college rock", fino ai Nirvana liquidati come "i R.E.M. col fuzzbox" e "una versione insignificante del sound di Seattle”, tutto questo prima di lavorare fianco a fianco con Cobain e compagni. Una collaborazione che lo portò a ritrattare quelle affermazioni. Non fu la prima né l’ultima volta che l’“Albini-pensiero” cambiò dopo diverse esperienze e riflessioni. Celebri anche le sue stoccate e i suoi aforismi su produzione e industria.
Negli ultimi anni Albini, come ha raccontato sempre il The Guardian, a cui ha parlato pochissimo nell’intervista ma mai a sproposito, si è limitato a fare qualche tweet sul poker e sulla politica statunitense. Come ricordato dal giornale britannico, ha lanciato la sua carriera nei primi anni '80 come leader dei Big Black, una band il cui suono travolgente e le visioni brucianti incarnavano uno spirito fai-da-te: prenotavano i propri tour, non firmavano mai un contratto, non assumevano un manager, non prendevano nemmeno in considerazione l'idea di entrare in una major, il tutto per sciogliersi al culmine della "fama", un termine molto relativo in quella scena. Poi è arrivata la carriera da ingegnere del suono, ha segnato l'era dei Pixies, di PJ Harvey e dei Nirvana, rimettendo al centro alcuni dei principi, più che altro sonori, della sua vecchia band. Il “suono Albini”, con il tempo, è diventato sinonimo di “più vero”. Una verità che si ritrovava maggiormente anche nelle sue parole. I nomi offensivi affibbiati alle band, gli insulti crudeli, le battute che giocavano con il razzismo, la misoginia e l'omofobia non sono stati più i suoi terreni di gioco, almeno ultimamente.
Ovviamente, come ricordava al The Guardian, non credeva davvero in nessuna di quelle parole: bastava ascoltare la sua musica, i suoi testi, per capire la sua visione politica. Ma Albini era fatto così: era convinto, in modo provocatorio, come lo scrittore Chuck Palahniuk nel suo capolavoro “Fight Club”, che solo dallo scontro, dalla rottura di due uova, si potesse ottenere una frittata, qualche cosa di buono. Non aveva tempo per gli individui che “stanno attenti a non dire cose che potrebbero offendere certe persone o fare qualcosa che potrebbe essere frainteso”, ha ricordato. “Ho meno considerazione per l'uomo che fa il prepotente con la sua ragazza e la chiama miss rispetto a un ragazzo che tratta le donne in modo ragionevole e rispettoso e le chiama 'Yo! cagna'", raccontò allo scrittore Azerrad.
Ma con lo scorrere dell'orologio, la sua prospettiva ha iniziato a cambiare. Negli ultimi anni osservando musicisti e pseudo artisti che sembravano e sembrano compiacersi di essere grossolani e offensivi, disse: “Quando ti rendi conto che la persona più stupida della discussione è dalla tua parte, significa che sei dalla parte sbagliata", disse Albini al The Guardian. In un mondo in cui la frizione verbale, per come la concepiva il musicista, ha perso la sua carica propulsiva e punk, tramutandosi in pura ignoranza, Albini ha riguardato al suo passato mettendolo mai come prima sotto esame. E in questa bolla odierna di urla, insulti e voci che dicono tutto ma in realtà non dicono nulla, ha preferito, per una sola volta, in quella lunga intervista, il silenzio, rotto solo dalla musica. E questo, forse, lo ha reso ancora il più punk di tutti.
È sostanzialmente impossibile dare la misura dell’importanza che ha avuto nell’evoluzione della scena musicale americana e mondiale utilizzando i parametri convenzionali, perché Steve Albini non ha inventato né un suono né uno stile, ma un metodo. “Sì, è la band a essere responsabile di un ottimo disco o di un disco orribile”, spiegò lui riguardo alla sua filosofia: “I diritti su un album sono dei gruppi. Io voglio essere pagato come un idraulico. Faccio il mio lavoro, e vengo pagato per quello che vale”. Non è una questione di appartenenza, anche Rick Rubin, all’inizio degli anni Ottanta, partì dalla nicchia, suonando con Husker Du e Minor Threat prima di inventare letteralmente quello che sarebbe diventato il mainstream dei decenni a venire con la Def Jam: Albini è sempre stato estremamente severo e coerente, innanzitutto con se stesso. La sua intransigenza non solo non l’ha elevato - a differenza del collega di New York - a deus ex machina da alta classifica (lui, comunque, avrebbe rifiutato, perché “fare parte dell'industria musicale mainstream è come fare parte di un racket: non c'è modo di essere coinvolto in un racket senza farcisi sporcare”), ma nemmeno gli ha permesso di ampliare la cerchia di potenziali amici - molto significativo, in questo senso, fu lo scontro con Amanda Palmer ai tempi di "Theatre is evil".
Tra i tanti meriti che ha avuto, ad Albini - guru suo malgrado per almeno un paio di generazioni di artisti - va riconosciuto quello di aver spazzato via quell’insopportabile patina di retorica che copre il 99% dei progetti artistici musicali - o sedicenti tali: lui viveva di musica, nel senso che ci pagava le bollette. E in un altro senso, più elevato, che riguardava solo e soltanto lui.