Questi album compiono vent’anni nel 2023
Sarà che il distacco storico ci permette inevitabilmente di essere meno severi e più imparziali rispetto ai lavori di artisti che all’epoca erano esordienti o poco più e che venivano trattati con tutto lo scetticismo del caso, salvo poi rivelarsi, nella maggior parte dei casi, star mondiali da milioni e milioni di copie vendute. Eppure a scorrere la lista dei dischi che nel 2023 compiranno vent’anni ci si ritrova davanti solamente grandi titoli. Ed è veramente difficile scegliere, tra tutti, i più rilevanti in assoluto di quell’annata. Che fu irripetibile: si aprì con l’uscita dell’album di debutto del fenomeno 50 Cent, “Get rich or die tryin’”, e si chiuse con la pubblicazione di “The diary of Alicia Keys”, il capolavoro della cantautrice newyorkese che ha ridisegnato i contorni dell’r&b negli Anni Duemila. In mezzo, un elenco che ai nostalgici di una delle ultime annate magiche dell’età d’oro dell’epopea del disco, dieci anni prima che Spotify rivoluzionasse per sempre la fruzione della musica, farà scendere qualche lacrimuccia.
Le case discografiche e i management dei vari artisti sono già al lavoro per mettere insieme il materiale, tra inediti, outtakes, remix e quant’altro, per spedire nei negozi ristampe e edizioni speciali da collezione dei dischi, come da prassi. Ce n’è per tutti: amanti del rock, del pop, del rap e del soul. Era il 6 febbraio del 2003 quando la Interscope Records, la Aftermath Entertainment di Dr. Dre, la Shady Records di Eminem e la G-Unit Records fondata dallo stesso rapper newyorkese diedero alle stampe l’atteso album d’esordio di 50 Cent, all’epoca 26enne fenomeno della East Coast. Un titolo su tutti: “In da club”, singolo di lancio del disco e hit tra le più iconiche della storia del rap. 50 Cent, che una decina d’anni dopo l’uscita di “Get rich or die tryin’” dichiarò la bancarotta, si è già portato avanti con i festeggiamenti quando lo scorso febbraio ha raggiunto lo stesso Dr. Dre sul palco dell’haftime show del Super Bowl, tra gli eventi mediatici più seguiti e commentati negli Usa, per cantare la stessa “In da club”. Alla fine del 2003 “Get rich or die tryin’” risultò essere l’album più venduto dell’anno negli Stati Uniti, con 12 milioni di copie. A livello globale, tra i dischi usciti nel 2003 solamente uno si avvicinò alle cifre dell’album d’esordio di 50 Cent: “Fallen” degli Evanescence uscì un mese dopo rispetto a “Get rich or die tryin’”. Il disco che fece scoprire a tutto il mondo il talento di Amy Lee e soci, trainato da successi come “Bring me to life” e “My immortal”, che portarono il gothic rock in testa alle classifiche, vendette 17 milioni di copie: a distanza di vent’anni, “Fallen” rimane – ahinoi – l’unico best-seller della discografia della band statunitense.
Quello di 50 Cent non fu l’unico folgorante esordio del 2003. Il 20 giugno la Columbia spedì nei negozi “Dangerously in love” di Beyoncé, che non era ancora la popstar che conosciamo oggi, ma aveva già cominciato a dimostrare di avere tutte le carte in regola per diventarlo in una manciata di anni. “Listen” sarebbe uscita solamente quattro anni più tardi, ma Beyoncé Giselle Knowles aveva dalla sua l’esperienza conquistata sui palchi e nelle classifiche con le Destiny’s Child, il trio composto insieme a Kelly Rowland e a Michelle Williams con il quale si era imposta sulle scene nei tre anni precedenti al debutto da solista con “Dangerously in love” grazie a hit come “Say my name” e “Survivor”. Beyoncé rispose alle altissime aspettative sfornando un disco di r&b contemporaneo contenente alcune delle canzoni destinate a diventare i suoi cavalli di battaglia, da “Crazy in love”, in duetto con il futuro marito Jay-Z, a “Me, myself and I”. Il 16 settembre toccò a una cantautrice dalla voce e dalla penna raffinatissime, di certo non destinata a diventare una diva come l’ex Destiny’s Child, ma ad essere comunque amata dal pubblico e dagli addetti ai lavori: Joss Stone fece timidamente il suo debutto con “The soul session”, che grazie alle riletture di pezzi come “Super duper love” di Willie Garner e “For the love of you” degli Isley Brothers vide la giovane musicista britannica essere incoronata dalla critica come la nuova reginetta del soul. Almeno per un mese. Il 20 ottobre a detronizzarla ci pensò il talento imprevedibile e ingestibile di Amy Winehouse, che con “Frank” diede il via alla sua triste, e purtroppo fin troppo breve, parabola: dell’album, prodotto da Salaam Remi, già al fianco di Nas e dei Fugees, faceva parte anche il singolo “Stronger than me”.
Altri furono chiamati a confermarsi dopo ottimi esordi. È il caso degli Strokes di “Room on fire”, secondo album della band di Julian Casablancas dopo il debutto di due anni prima con “Is this it”, della stessa Alicia Keys con il suo “The diary of Alicia Keys” (dentro c’era la hit “If I ain’t got you”) o dei Linkin Park di “Meteora”. Già più navigati, ma comunque chiamati a riconfermarsi, anche i Muse di “Absolution” (“Time is running out” fu un successo), i White Stripes di “Elephant” (“Seven Nation Army” era contenuta in quel disco, per dire) e i Black Eyed Peas di “Elephunk” (“Where is the love?” fu uno dei tormentoni di quell’annata). Britney Spears con “In the zone”, l’album di “Toxic”, conquistando ancora una volta la vetta delle classifiche iniziava paradossalmente la sua discesa negli inferi del lato oscuro del pop.
E che dire dei Radiohead di “Hail to the thief”? Era il 9 giugno quando Thom Yorke e soci diedero alle stampe il loro sesto album di inediti, ideale successore di “Amnesiac”, uscito due anni prima: l’album debuttò al primo posto della classifica del Regno Unito e negli Usa vendette nella prima settimana più copie di ognuno dei precedenti lavori della band britannica. Il 18 novembre i Blink-182 spedirono nei negozi il loro quinto album, dal titolo eponimo: prima dell’uscita del disco fecero circolare un falso titolo goliardico, “Use your erection vol. I & II”, una vera e propria presa in giro verso i Guns N’Roses, poi le canzoni di “Blink-182” rivelarono la crescita del gruppo, tra testi più profondi e sonorità più elaborate. Tornando al rap, Jay-Z con il suo “The black album” confermò di giocare in un campionato tutto suo, mettendo d’accordo critica e pubblico: alla produzione un cast stellare composto da Kanye West, Just Blaze, Timbaland, 9th Wonder, Rick Rubin e The Neptunes. Ai Grammy del 2004, però, l’unico Grammy lo vinse grazie a un duetto con Beyoncé – destinata a diventare sua moglie – contenuto nell’album di quest’ultima, “Crazy in love”. A rubargli la scena furono gli OutKast, campioni delle classifiche con la hit “Hey ya!”, che nel febbraio del 2004 tornarono a casa dallo Staples Center di Los Angeles con tre statuette, compreso il Grammy per l’Album dell’anno con il loro “Speakerboxxx/The love below”.