Marracash: “Miro a essere il Vasco o il Lucio Dalla del rap”

La sua crisi personale ha coinciso con quella del Paese. Ne è uscito un gigante.

Oggi non c’è penna in Italia che non veda in Marracash qualche cosa di più di un rapper o di un cantautore. Negli ultimi anni, dopo aver affrontato uno spietato duello con se stesso, è diventato la voce che più ha saputo, partendo da una crisi personale, allargare la visuale e raccontare le fratture più profonde della nostra società. È scomparso per poi riapparire e trasformarsi in un gigante, capace di elevare ancora una volta il rap a poesia critica. “Persona” del 2019 e “Noi, loro, gli altri” del 2021 sono il compimento di questo percorso. Del suo ultimo album fa parte anche la traccia “Dubbi” per cui l’artista Tarik Berber ha realizzato 2500 disegni, ossia il fulcro della video-animazione che accompagna la canzone. Il rapper è pronto a partire per un lungo tour, il più importante della sua carriera, che si snoderà attraverso 32 appuntamenti, tra rassegne estive e palasport.

Perché questo video così particolare?
“Ho conosciuto Tarik grazie a una mia amica. Mi piaceva l’idea che un pezzo non convenzionale, lontano dalla struttura della forma canzone, fosse accompagnato da un video artistico. ‘Dubbi’ ha proprio quell’obiettivo, ha un’attitudine particolare: non è intrattenimento”.

Non ti piacciono i compromessi?
“Ho sempre fatto fatica ad accettarli. La mia filosofia è sempre stata: si vive una volta sola. Per questo, il tempo che si ha non va sprecato facendo ciò che non piace o non fa stare bene. Se si cede a questo compromesso, si viene sconfitti. E a me non piace perdere”.

La tua crisi personale ha coinciso con quella del Paese.
“Questi due anni ci hanno messo spalle al muro. Ci hanno obbligato a fare i conti con noi stessi. Quello che le persone hanno vissuto con la pandemia, io l’avevo già in parte vissuto. Arrivavo da un’altra crisi, quella che mi ha portato a scrivere ‘Persona’. E in effetti ai tempi parlavo di terapia e di salute mentale, tutti temi che di lì a poco sarebbero diventati centrali con il Covid. C’è stato un momento, quando a causa del virus ho dovuto rimandare tutto il grande tour legato a ‘Persona’, che ho pensato di essere stato maledetto da Dio. Ma poi ho reagito con ‘Noi, loro, gli altri’”.

Lo hai annunciato improvvisamente alla fine del 2021. È stato un progetto ancora più ambizioso di “Persona”?
“Per me sì. È un lavoro in cui la componente testuale è ancora più alta. Lo considero una sorta di continuazione spirituale del disco precedente, infatti è nato in primis per esserne un’appendice. È stato pazzesco perché quando è uscito, per due settimane, sembrava si fosse fermato tutto. Anche personalità di altre forme d’arte mi hanno scritto facendomi i complimenti: da Valerio Mastandrea ai fratelli D’Innocenzo. Sono canzoni arrivate al cuore anche di chi non è strettamente legato al mondo della musica”.

C’è chi diceva che dal periodo pandemico ne saremmo usciti migliori. Che cosa ne pensi?
“Ne siamo usciti a pezzi. Ma ci farà bene. Essere a pezzi fa parte del percorso”.

Prima del ritorno nel 2019 e della pandemia eri scomparso dai social.
“Ero scomparso per esigenza, non per volontà. ‘Persona’ è stato un disco doloroso. Per scrivere bisogna guardarsi dentro e spesso quello che si trova non è affatto piacevole”.

“Persona” e “Noi, loro, gli altri” hanno cambiato per sempre il rap italiano. “Dopo ‘Persona’ tutti con il disco personale” dici in “Ko” con Gemitaiz. Senti che si è chiuso un ciclo e se ne è aperto un altro?
“Credo che qualche cosa sia cambiato. Indossare la collanona non è più rivoluzionario. Quando l’estetica rap, penso a quella di Biggie, in passato la prevedeva, aveva ancora un senso. Soprattutto perché era molto raro vedere un afroamericano del ghetto con una collana d’oro. Questa narrazione, però, oggi è stata superata, è over sfruttata. Si è compiuto un passo successivo, di maturazione, anche in Italia. Si può arrivare al grande pubblico senza cadere in vecchi cliché, proponendo contenuti di spessore. Kendrick Lamar è esattamente questo. Oggi faccio davvero fatica ad ascoltare dischi rap con gli stessi suoni e gli stessi argomenti”.

Il tuo brano preferito di Notorius B.I.G.?
“Ten Crack Commandments”.

Come porterai la tua musica in tour?
“L’idea alla base è molto precisa. Sono settimane che stiamo provando. La performance rap spesso è disgraziata: uno, solo sul palco con l’autotune, che tira stecche. Ecco, non sarà così. Anche in questo caso voglio alzare il livello, elevando il valore della musica. Con me ci sarà una vera band di cinque elementi che daranno spessore al suono. Ci sarà anche una componente importante di visual”. (La band è formata da Jacopo Volpe (direttore artistico e batteria), Alessandro Marz (producer-sequenze), Eugenio Cattini (chitarra), Roberto Dragonetti (basso), Claudio Guarcello (tastiere), ndr).

Quale sarà il filo rosso?
“Il comune denominatore della scaletta sarò io. Il live sarà diviso per mood. Ci sarà una partenza più dura, un momento più hip hop con il dj e un altro più legato alla forma canzone. Sono concerti scanditi da veri stati d’animo in cui gli ultimi due dischi avranno, ovviamente, un ruolo centrale”.

Nel tour ci saranno delle sorprese? 
“Nelle date nei palazzetti ci saranno diversi ospiti. Mi piacerebbe realizzare alcune idee come quella di portare sul palco un tenore per fargli cantare la parte lirica di ‘Pagliaccio’. Ci stiamo lavorando”.

Come si può elevare oggi il rap in Italia? 
“Il rap si eleva valorizzando la musica e la componente testuale. Ma l’argomento che mi interessa di più è l’autenticità. Oggi in giro ci sono molti cosplayer. Va di moda vestirsi da rapper o da rocker, imitandone la forma, ma mettendo da parte la sostanza. Lo capisco, è un qualche cosa di generazionale, ma mi fa paura vedere ventenni imitatori di stili. Si travestono, non sono ribelli. Non essere ribelli da giovani è come essere mutilati. C’è il rischio che, a suon di copiare, ci si dimentichi davvero chi si è”.

I cliché intaccano il cambiamento?
“L’hip hop italiano ha dovuto affrontare un lungo discorso di accettazione. E i cliché fanno parte di questo discorso. I ragazzi che oggi dicono ‘gang’ o ‘bando’, non sapendo a che cosa si stanno realmente riferendo, seguono solo un’estetica e il manuale del rapper. Questa continua imitazione non fa bene al genere. Ma, come dicevo prima, qualche cosa è cambiato”.

I tuoi dischi sono stati il motore di questo cambiamento. Ma perché non è avvenuto prima?
“Perché il rap contemporaneo più melodico, se così lo possiamo chiamare, non ha prodotto ancora dischi di successo. La trap, nello specifico, ha fatto uscire singoloni, canzoni da discoteca, ma non grandi dischi capaci di rimanere nel tempo. Anche all’estero gli artisti più importanti capaci di vendere dischi, penso a nomi come Kanye West e J. Cole, hanno comunque un legame con il rap più tradizionale”.

Come è nata la collaborazione con Vasco in “La pioggia alla domenica”?
“Vasco mi ha fatto un’offerta che non si può rifiutare (ride, ndr). Al di là della collaborazione, io sono sempre stato un suo grande fan. In Italia, nel songwriting, è un numero uno. Mi contattò il suo management proponendomi il pezzo. Ho cercato di fare del mio meglio, offrendo la mia visione. Gli è piaciuta molto”.

Vasco è un punto di riferimento anche a livello di carriera?
“Certo. Io miro a essere il Vasco Rossi o il Lucio Dalla del rap (sorride, ndr)”.

Negli ultimi feat che hai realizzato, penso a quelli con Ghali e Gemitaiz, c’è molta attualità. Perché?
“È il vantaggio di consegnare la propria parte all’ultimo minuto, in chiusura. Quando ho inviato il tutto a Ghali, Salvini era appena stato in Polonia, le mie barre nascevano da lì, per questo sono risultate fresche. Mi piace l’idea che il rap sia cronaca, un tempo si diceva la CNN del ghetto”.

J-Ax e Fedez hanno fatto pace. Voi vi siete sentiti?
“Ribadisco quello che ho già detto in passato: le frecciatine non servono a nulla. Siamo due persone molto diverse, ma adulte. Se qualche cosa deve accadere che sia un confronto vero, costruttivo. Io mi sono dato disponibile. Non ho nulla di personale contro Fedez”.

Nel video di “Crazy Love” compare Elodie. Quel “saluto”, trasformato in arte, è diventato un simbolo di “Noi, loro, gli altri”. 
“Quando lo girammo non stavamo già più insieme, ma abbiamo voluto comunque realizzarlo. Spesso la nostra relazione è finita o finisce al centro di tantissime notizie. Lo so che è difficile da spiegare, ma il rapporto fra me e lei non può essere incasellato, non è come lo intendono gli altri. Per questo continuiamo a vederci e a volerci molto bene”.

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