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Sanremo 2022, Amadeus: "Il vero motore sono le canzoni"

Il direttore artistico racconta cos'è per lui il Festival di Sanremo
Sanremo 2022, Amadeus: "Il vero motore sono le canzoni"

Esce in questi giorni "Sanremo il Festival - Dall'Italia del boom al rock dei Måneskin" (Edizioni D'Idee, 190 euro 16.90), un libro scritto dal collega Nico Donvito - la copertina è di Riccardo Mazzoli, potete vederla alla fine dell'articolo - che racconta le 71 edizioni della manifestazione. 

Donvito lo presenta con queste parole:

«Ho riflettuto su quanto sia cambiato il Festival negli anni e su quanto, per certi versi, sia rimasto socialmente uguale e irrimediabilmente fedele a se stesso. Dalla ricostruzione post bellica alla ricostruzione post-Covid, per intenderci. Nel corso dei decenni, Sanremo ha raccontato il nostro Paese, in tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Seppur con una liturgia tutta sua, la rassegna ha saputo rinnovarsi pur mantenendo intatta la propria natura. In fondo, come potremmo definirla se non una ruspante rappresentazione allegorica, in note e paillettes, di un’Italia che cambia e che, per certi aspetti, non vuole mai cambiare?».

Ne diremo meglio in sede di recensione; per il momento, grazie alla gentile concessione dell'autore, riprendiamo parte della prefazione del libro, firmata da Amadeus.

 

Da spettatore e da italiano, ho sempre pensato che il Festival di Sanremo abbia il merito di raccontare il nostro Paese, in tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Negli anni questa manifestazione ha assunto una grande valenza sociale e culturale, diventando un po’ come il Carnevale di Rio per i brasiliani. La magia accompagna da sempre la kermesse, trasformando per una settimana quello che durante l’anno è un cinema in uno dei templi più importanti della musica a livello internazionale.

Bene o male, alla fine, tutti parlano del Festival, rimanerne fuori è come essere esclusi da una chiacchiera globale, da un pettegolezzo o da una valutazione del giorno dopo. A tratti, è davvero come vedere una finale dei campionati del mondo, anche se non sei tifoso di calcio diventa un appuntamento quasi imperdibile. Sanremo è tutto questo, un luogo dove chiunque sente di poter accedere.

Il Festival illumina tutto e tutti, ciò che passa attraverso il racconto di questa manifestazione viene amplificato da una cassa di risonanza che rende qualsiasi cosa cento volte più importante. Questo, naturalmente, vale soprattutto per la musica. Avendo cinquantanove anni, ho avuto la fortuna di seguire il Festival fin dalle edizioni in bianco e nero.

Quando ero bambino ci si riuniva in famiglia per guardare tutti insieme questo grande spettacolo, poi crescendo ho continuato a seguirlo a casa di amici, sempre in compagnia, perché Sanremo è aggregazione: più si è e meglio è.

Nel corso del tempo, le varie edizioni hanno acquisito la personalità del proprio direttore artistico. Un ruolo spesso criticato, ma che rappresenta la vera forza del Festival, che altrimenti diventerebbe una macchina sempre uguale a se stessa, finendo per assomigliare ad un prodotto preconfezionato. A seconda di chi organizza e di chi calca quel palco, Sanremo cambia e offre sempre qualcosa di nuovo. Le annate di Paolo Bonolis sono state diverse da quelle di Fabio Fazio, così come le edizioni di Claudio Baglioni da quelle di Carlo Conti. Ognuno ha dato la propria impronta.

L’evoluzione del Festival non è stata determinata solo dall’avvicendamento dei vari direttori artistici, ma anche dai significativi cambiamenti che hanno investito il panorama musicale. Non a caso, questa è stata per me la prima voce nell’elenco delle cose da fare: puntare sulla contemporaneità e su canzoni che il giorno dopo potessero affermarsi in classifica, riempire le programmazioni delle radio e rinfoltire le playlist di Spotify. C’è stato un periodo in cui, a mio avviso, il Festival è apparso troppo staccato dall’attualità.

Quando sono stato scelto come direttore artistico, mi sono approcciato a questo ruolo con grandissimo rispetto, un po’ come se dovessi restaurare un’opera d’arte. Il restauratore può apportare delle piccole migliorie, secondo il suo personale criterio, ma un’opera d’arte è già di per sé un capolavoro. Per questo motivo, mi sono limitato ad apportare delle modifiche che potessero rappresentarmi, cercando di lavorare sulle canzoni in gara.

Questo insegnamento l’ho ricevuto da Pippo Baudo, l’uomo che nell’immaginario collettivo ha incarnato più di tutti l’idea di Sanremo. Prima ancora che fossi insignito di questo incarico, Baudo mi disse: «Se un giorno ti ritroverai a fare il Festival dovrai essere presente in tutto quello che riguarda l’organizzazione, a partire dalla scelta delle canzoni. Riceverai mille pressioni, ma alla fine l’ultima parola dovrà sempre essere la tua». Mi colpì molto questo suo discorso, anche perché non riuscivo ancora minimamente ad immaginare come si potesse mettere in piedi un evento di tale portata.
Nel mio piccolo, ho cercato di seguire il suo consiglio, senza stravolgere tutto quello che c’era stato prima, perché la tradizione per me è fondamentale. 

Per organizzare un buon Festival bisogna tener conto di parecchi aspetti, cercare di apportare dei cambiamenti senza stravolgere, ma anche senza ipocrisie. Se un tavolino non sta più in piedi, non serve a nulla dargli una mano di vernice, piuttosto occorre sostituirlo. Sulle cose che non vanno non basta mettere una pezza, mentre ciò che già funziona può essere modificato e perfezionato. È fondamentale avere memoria storica, ma anche essere molto concentrati sull’attualità e riportare i giovani, come si dice spesso, a guardare Sanremo.

La musica di oggi corre ad una velocità tripla e i giovani artisti sanno come cavalcare questo momento, tutti gli altri devono adeguarsi al mercato. Questa situazione, di conseguenza, costringe i cantanti già affermati a tornare a lavorare con grande impegno ed a rimettersi in discussione.
Auguro al Festival un futuro radioso, con la consapevolezza che, per quanto lo spettacolo sia importante, il vero motore di tutto sono le canzoni. 

Amadeus


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