Da riscoprire: la storia di "Tutti morimmo a stento" di Fabrizio De André

Il 1968 di Fabrizio De André non è come uno se l’aspetta.
Il cantautore genovese non scrive di rivoluzione proletaria, né di perbenismo borghese. Tratta, invece, uno degli argomenti più inadatti a diventare oggetto di una canzone: la morte. Influenzato dall’ascolto dell’album dei Moody Blues “Days of future passed”, registra un disco anomalo, un album in cui la voce e la chitarra sono abbinate ai suoni di un’orchestra. L’idea, realizzata grazie alla collaborazione dell’arrangiatore e compositore Gian Piero Reverberi, è affascinante e assieme temeraria. È pur vero che De André ha alle spalle pezzi come “La canzone di Marinella” e “Bocca di rosa”, ma non è ancora il cantautore più rispettato e venerato d’Italia. Il risultato è “Tutti morimmo a stento”, un lavoro ponderoso e importante, uno dei primi concept album italiani.
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“Tutti morimmo a stento” è un album di rottura. Contribuisce a fare di De André una figura intellettuale e non solo l’autore di splendide canzoni come “Via del campo” e “Amore che vieni, amore che vai”. In Italia non si ricordano altri dischi improntati a una tale nobile serietà d’intenti.
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