
Allora, anzitutto decidiamo in che lingua parliamo: inglese, spagnolo, italiano? Come vuoi, non c’è problema…
Ok, un po’ inglese e un po’ spagnolo, allora…Dove sei stato in tutto questo tempo?
In che senso?
Be’, è soltanto dai tempi della Mano Negra che non ti si vede più in giro! Se non fosse stato per il disco che hai pubblicato… è vero che sono venuti a stanarti in Africa, qualche tempo fa?
Ci sono stato per un po’ di tempo, è vero… mi sono sposato in Africa due anni fa, quindi ho trascorso un po’ di tempo in Senegal. Sono stato a lungo anche in Spagna…Africa, Senegal, Mali, Spagna e Sudamerica, fondamentalmente…
Facendo musica?
Sempre. Vivo spostandomi continuamente, ma non smetto mai di fare musica, di scrivere canzoni e di registrarle.
In Senegal dove?
A Dakar.
Hai conosciuto Youssou N’Dour?
No, non lo conosco. Vivo in un quartiere molto piccolo, molto tranquillo. Non c’è una grande confusione.
Sei sposato con una donna di Dakar?
Sì. L’ho conosciuta a Dakar molto tempo fa.
”Clandestino” è uscito più di un anno fa. Come lo vedi a un anno di distanza?
Ringrazio la vita. Per me la storia di questo disco…
Qual è la storia di questo disco?
E’ difficile da dirsi, ma per me l’ultimo anno è stato un periodo molto bello. Questo disco, invece, è stato registrato in un periodo molto confuso della mia vita, e per me lavorarci ha rappresentato una ‘limpieza’ (‘purificazione’, ndr), come dicono i brasiliani. Non avevo nessuna intenzione di intraprendere una carriera da solista, l’ho registrato soltanto per me: non sapevo se sarebbe piaciuto o no, se avrebbe venduto…
…a quanto pare è piaciuto molto, no?
Sì, direi di sì. Beh, favoloso, no? Per me è un album molto personale e il feedback ricevuto dalla gente è incredibile. Credo di aver fatto dischi a sufficienza nella mia vita, eppure non avevo mai ricevuto un riscontro di questo tipo, così carico e dolce; la gente mi si rivolge con molta tenerezza.
E’ questa la differenza principale rispetto alla musica registrata con la Mano Negra?
Con il gruppo non mi era mai successo di suscitare tante emozioni, attraverso i dischi: mi era successo con i concerti, casomai. Avevamo un forte legame con il pubblico che veniva ai concerti. Era probabilmente l’aspetto più emozionante della storia della Mano Negra: vedevamo che la gente era realmente emozionata per i nostri concerti. Ma in un disco non mi era mai successo… e questo mi dà la voglia di farne un altro. Assolutamente, devo farne un altro l’anno prossimo, perché questa relazione con le persone è bellissima.
E dove andrai a registrarlo?
Il disco? E’ già pronto. Manca soltanto di finire il missaggio. Registro in continuazione.
Ma dove l’hai inciso?
In giro, nei miei viaggi. Mi porto dietro un registratore ad otto piste, e grazie alla tecnologia ho realizzato il mio sogno: uno studio di registrazione che entra in valigia! Quindi sono felice…dovunque vado ho lo studio con me.
Il nuovo album sarà molto diverso da “Clandestino”?
E’ difficile da dirsi, perché ho molte canzoni già pronte. Lo stesso problema che avevo avuto per quel disco. “Clandestino” contiene 17 canzoni, ma sono state selezionate tra 60…
E quelle che non hai utilizzato che fine hanno fatto?
Sono a casa! Alcune finiranno nel nuovo album, le altre non so. Comunque abbiamo pronti praticamente tre o quattro album di canzoni già registrate. A questo punto bisogna soltanto scegliere cosa utilizzare, cosa alquanto complessa. E’ il mio problema: registro in continuazione e finisco per essere pieno di materiale. D’altra parte la cosa che mi piace di più del mio lavoro è proprio quella di seguire l’ispirazione, l’attimo. Ogni giorno è buono per far nascere una canzone: basta un riff, poi un foglio per scrivere le prime parole, poi accendo il microfono e vado avanti fino a quando l’idea di base non è sviluppata totalmente.
Hai sempre lavorato in questo modo oppure è una cosa che ti succede soltanto da quando sei un solista?
Credo che ci sia una frontiera che separa i primi tre album della Mano Negra da “Casa Babylon”, che è stato il primo disco senza un vero e proprio gruppo, un vero esperimento. Ho imparato a lavorare con una forte componente di casualità e questa è adesso una cosa che apprezzo molto.
Non è una filosofia molto ‘occidentale’…
No, hai ragione. E’ una cosa che ho appreso molto di più in Sudamerica, in Africa, nei posti in cui la gente lavora di più con l’improvvisazione. Il problema è che molto spesso quando sei ispirato non hai la possibilità di registrare, e quindi perdi molto del tuo lavoro. Io con il mio piccolo studio portatile sono riuscito a porre rimedio a questo problema. Lavorare con la casualità è difficile, può succedere in ogni istante: è una cosa che dà molta libertà, però.
E’ stancante lavorare in questo modo? Essere sempre aperti all’ascolto di quanto succede ‘fuori?
A me non mi stanca, però io sono fatto così. Sono molto curioso, sono una persona inquieta. Mi stanca di più stare al riparo. Ho sempre mille idee, cose che voglio fare…
Questo è il tuo concetto di world music…
Non mi piace parlare di world music, per me è una definizione che non significa nulla…
Che cosa ne pensi della commercializzazione della musica etnica?
Non saprei…gli AC/DC vengono dall’Australia e quindi per me sono world music. Parlare di world music è molto ‘etnocentrico’: ne può parlare l’Occidente, ma per un africano un gruppo rock di Cincinnati può essere considerato world music… non mi piace parlare di questa definizione, in ogni caso credo che l’unico artista nei confronti del quale abbia senso è Bob Marley. La sua musica è rispettata ed è entrata ovunque, è un passaporto per tutti i paesi del mondo…
Ce ne sono altre, però, non solo Bob Marley…
E chi?
La tua…
No, non ancora, comunque…
Bob Dylan…
No, assolutamente. Nessuno ascolta Bob Dylan a Tetuan, mentre Bob Marley sì. Tutta l’Africa ascolta Bob Marley, tutto il Sudamerica, e l’Europa, la periferia di Parigi o di Francia…
Rolling Stones?
Nessuno ascolta i Rolling Stones a Tetuan.
Frank Sinatra?
Nemmeno… L’unico artista conosciuto in ogni ghetto del mondo è Bob Marley. Ovunque…
Ti piacerebbe diventare come lui…?
Sto meglio vivo che morto, grazie! No, a parte gli scherzi, mi piacerebbe… la musica di Bob Marley regala delle buone vibrazioni, è come una medicina. La gente del ghetto la ascolta per sognare, rilassarsi, sperare. Se un giorno la mia musica arriverà a questo sarà realizzato il mio sogno di musicista. Se arrivo a fare della musica che faccia bene alla musica sarò felice.
”Clandestino” è un titolo molto azzeccato per il tuo disco: simboleggia anche una categoria di persone che ti senti in qualche modo di rappresentare?
Sì. Viaggiando molto mi sono reso conto che uno dei più grandi problemi del vivere spostandosi è che le frontiere sono sempre più ermetiche. E’ caduto il muro di Berlino, ma hai muri molto più difficili da oltrepassare che si stanno alzando: la barriera tra Africa ed Europa attualmente è molto compatta, dura da attraversare. Una volta c’era una separazione tra est e ovest, adesso c’è tra nord e sud. E adesso quello che vediamo nel mondo sono soltanto alcune linee di febbre, che derivano da questa stagnazione, dal fatto che l’acqua che non circola diventa acqua marcia. Il disco è molto influenzato da queste problematiche: “Welcome en Tijuana”, ad esempio, dove Tijuana è il simbolo di questa acqua che non circola tra sud e nord, “Clandestino” parla di Gibilterra. Nel mondo ci sono due categorie di persone: quelle che hanno il passaporto e quelle che non ce l’hanno. E questa non potrà mai essere una cosa buona, perché crea molta rabbia. In Africa è evidente: attualmente c’è un risentimento nei confronti della Francia molto forte, c’è odio, perché la gente non capisce. C’è tensione, estremismo, in gran parte negativo, come quello che sfocia in un islamismo radicale. L’Europa crede che la soluzione sia tenere tutto sotto chiave, ma in realtà quella è la soluzione più stupida.
“Clandestino” è un termine che tira in ballo la legge: spesso un clandestino va contro la legge, o meglio, non è contemplato dalla legge…
Il clandestino non è contrario alla legge, diciamo che non è contemplato dalla legge. I clandestini di tutto il mondo non chiedono di essere clandestini, chiedono fogli per essere messi in regola. Non sono loro in lotta contro la legge, è la legge che li mette fuori dalla società. Il clandestino è disposto a morire per passare una frontiera, quando la trova chiusa, perché la sua voglia di vivere è più forte di qualsiasi ostacolo. E per giunta la chiusura delle frontiere permette lo sviluppo di una qualche classe mafiosa.
Che rapporto hai con la legge? Con la Mano Negra eri molto politico: adesso?
Non so cosa significhi essere politico. Io sono un passeggero che attraversa il mondo e vede delle cose…Sicuramente sono poche le volte in cui sono fuori dalla legge, lo ero molto di più quando avevo 17-18 anni.
Perché? E’ cambiata la legge o sei cambiato tu?
Non lo so. Adesso sarebbe stupido da parte mia andare a rapinare un benzinaio! Perché dovrei farlo? O rubare in un negozio…sarebbe veramente un gesto per amore del ‘mestiere’! Non ne ho bisogno. Prima lo facevo…
Ma per necessità o per amore del ‘mestiere’?
Non per necessità, però il gruppo con cui andavo… era una cosa curiosa, ero come una mascotte. Non ero proprio un bandito, ma andavo con loro a rubare nelle case, a fare rapine…io ero il più piccolo del quartiere, e i miei amici mi portavano con loro quando andavano in 'missione'. Avevo un ruolo quasi folkloristico piuttosto che attivo…il peluche portafortuna.
Beh, i tuoi amici avevano visto lungo: hai avuto fortuna, tutto sommato…
Hai ragione, ho avuto veramente molta fortuna. Ho 38 anni e quando torno a Parigi, nel bar di sempre, a Pont-sevre, evidentemente tutto è cambiato. A 15-16 anni eravamo tutti lì e sognavamo tutti cose favolose, ora la vita ha dato il suo verdetto: molti sono morti di droga, AIDS, altri sono ingrassati, altri stanno ancora in quella stessa piazza con il solito boccale di birra in mano, come se non si fossero mai mossi, e altri sono riusciti a combinare qualcosa, e poi ci sono io che sono il più fortunato. Non sono caduto nella droga, nella malavita, ho trovato la mia passione che è diventata il mio lavoro. Sono molto fortunato... se morissi domani sarei soddisfatto.
Ti mancano i concerti con la Mano Negra? E perché suoni così poco in giro?
Veramente suoniamo tutti i giorni, a Barcellona siamo in sei o in sette e suoniamo tutte le sere due o tre ore. Usciamo di casa, troviamo un posto tranquillo e suoniamo. Non ho mai smesso di suonare, ho continuato a esibirmi nei bar, per piccoli gruppi di persone…
Niente tournée con biglietti…
No, niente tour ufficiali, è finita. Non che non mi piaccia, ma mi sento come se avessi mangiato a sufficienza dopo l’esperienza con il gruppo. E’ stato bellissimo con la Mano Negra, e non ne ho più bisogno, non ho più fame. All’inizio, dopo lo scioglimento del gruppo, ero spaventato: pensavo che non sarei riuscito a stare senza un grande pubblico. Ma mi sbagliavo: adesso quando vado a qualche concerto mi diverto molto anche per il fatto di non suonare, mi piace stare tra il pubblico. Anche se non sembra, sono una persona timida, e avevo molta paura quando salivo sul palco. La cosa che non sono riuscito a smettere di fare dopo lo scioglimento del gruppo è stata viaggiare: ho passato quattro anni in cui non sono mai stato per più di 15 giorni nello stesso posto. Ero dipendente dai viaggi. Avevo bisogno di provare molte emozioni.
E’ vero che hai organizzato un circo?
Sì, si chiama “Feria de las mentiras”, ed è un circo ambulante… vedi, quando ti dico che non suono dal vivo intendo per l’appunto in modo ufficiale. E del resto ormai non potrei più: ho troppi amici in tutto il mondo, ho famiglia in molti posti, e non posso più pensare di suonare una sera a Rio De Janeiro e andare via la sera successiva. Ormai quando vado a Rio devo fermarmi almeno una settimana! Preferisco girare con il circo e con il suo ritmo; ci fermiamo una settimana in un posto e andiamo in giro a conoscere le persone del posto. E così alla fine lo spettacolo che facciamo è una miscela di quello che facciamo noi e di quello che sanno e che vogliono fare le persone del posto. Ecco perché nessuno spettacolo sarà mai uguale ad un altro, e la settimana dopo, in un’altra città, sarà ancora diverso. Perché stare una settimana in un posto ti permette di inventare uno spettacolo con le persone che abitano lì, piuttosto che portare sempre le stesse trovate. Il primo esperimento l’abbiamo fatto la scorsa estate in Galizia: abbiamo scelto la Galizia perché a mio parere è l’ultimo posto rimasto in cui le feste popolari sono veramente sentite dalla gente. Loro hanno una grande cultura in termini di feste popolari. Quando siamo andati lì, ci siamo andati non tanto per insegnare loro qualcosa, quanto per imparare da loro come si fa a fare uno spettacolo. Non so dove ci esibiremo per la fine dell’anno: potrebbe essere in Africa oppure in Cile…
E’ bello avere questo rapporto con il proprio lavoro…
Sì, è vero. Scegliere di fare cose senza prevedere routine, scegliere quello che si vuole fare e farlo. Una volta ero un grande sognatore, poi ho iniziato a capire che sognare è molto facile, ma realizzare è più difficile e vale molto di più. Realizzare uno spettacolo, per quanto piccolo come questo, è già una grande vittoria per noi. Quando andammo con la Mano Negra in Colombia, attraversandola in treno e fermandoci a suonare nei posti, abbiamo realizzato soltanto il 20% di quello che avevamo sognato, però è una cosa di cui si parla ancora. Credo che quella sia stata l’esperienza più bella e importante della mia vita.