Il primo ricordo che ho di Moby è un concerto del '96, in apertura ai Soundgarden a Milano. Fu molto caotico, un approccio punk di certo non memorabile, ben prima del mega successo di "Play" ('99, 12 milioni di cpera), che era invece basato su elettronica e sampling. 25 anni dopo lo ritrovo con un disco su Deutsche Grammophon, il marchio più famoso della musica classica, 123 anni di storia.
La reazione banale sarebbe: "Si nasce incendiari, si finisce pompieri". Ma sarebbe riduttivo; Moby è sempre stato un artista multiforme e non sempre classificabile. Uno che ha fatto di tutto, sul palco e fuori dal palco (come testimoniato anche dalle sue autobiografie) Non tutto gli riesce bene, anzi: ma "Reprise" - al di là di ogni possibile scetticisimo iniziale - funziona eccome.
Un album (non solo) orchestrale
Arriva quel momento di una carriera di un artista in cui si fa il tour o l'album orchestrale. Come l'album di cover, può sembrare un ripiego, un momento di stanca o un'operazione di marketing. Il che di per sé non è un male, basta che il contenuto sia di valore. E "Reprise" ha una idea, al di là del marchio usato per pubblicarlo e lanciarlo.
Non è una novità, peraltro: Deutsche Grammophon negli ultimi anni è stato usato da diversi artisti pop rock o di confine - Sting, Tori Amos, Rufus Wainwright, Brian Eno - anche per lavori non necessariamente legati al mondo della musica colta.
Qua il legame c'è: la presenza della Budapest Art Orchestra. Ma non è un disco orchestrale; non è solo quello, quanto meno. Il fulcro sono le canzoni di Moby rivisitate, in alcuni casi in modo minimale, più da unplugged (molto bella "Porcelain" con Jim James dei My Morning Jacket) che da disco sinfonico, in altre sfruttando più il peso dell'orchestra (esemplare "The last day").
Un album corale
Più che altro, è un disco corale, con una grande quantità di ospiti, alcuni a tema con l'etichetta - Vikingur Ólafsson - altri dal mondo di Moby: Gregory Porter (notevole "Natural Blues", che recupera l'atmosfera gospel dell'originale), Jim James, Kris Kristofferson, Mark Lanegan. Un disco che, pur nella varietà di approcci e di voci, ha una sua unità di fondo e funziona, in maniera piacevole e mai banale.
La canzone
"The lonely night": le voci di Mark Lanegan e Kris Kristofferson (84 anni) si intrecciano, con quest'ultimo che mostra tutta la sua vulnerabilità: sembra un brano uscito dritto dagli American Recordings di Johnny Cash, per sonorità e approccio. Una sorta di "Hurt", con un racconto senza sconti della vecchiaia. Commovente.