Negli anni questa storia l’abbiamo sentita in diverse incarnazioni, legate a diversi formati e piattaforme, dagli MP3 a MySpace fino YouTube. L’artista viene scoperto non più nei locali, come una volta, ma grazie alla musica postata da solo in rete. Una storia che ogni tanto è vera, spesso è usata ad arte da industria e media per “lanciare” un artista.
Ora è la volta di Vine: Shawn Mendes , 16 anni, arriva dal Canada e da Vine: per chi non la conoscesse, è una piattaforma di Twitter, in cui si postano brevissimi video (6 secondi), che vanno in loop; è stata la prima di successo a sperimentare un formato di condivisione di clip (Instagram ha aggiunto i video, da 15”, ma solo in seguito). E, come spesso capita, le limitazioni del mezzo diventano strumenti di espressione: fare un Vine significa pensare un frammento che crei una narrazione attraverso la ripetizione, in un ciclo infinito di loop. Si è sviluppata una scena musicale interessante, e Mendes è arrivato ad avere milioni di follower. I suoi video in realtà sono molto semplici, frammenti di cover acustiche postate senza troppa pre-produzione video (come capita per altri musicisti, che costruiscono ad arte i loro microbrani).
A differenza di YouTube, quello di Vine è un formato difficilissimo da trasformare in musica compiuta: Passare da 6 secondi a canzoni intere è un bel salto. Ma Mendes ha evidentemente talento che va oltre il micro formato: “Handwritten”, il suo disco di debutto, è volato al primo posto delle classifiche statunitensi.
C’è tutto quello che serve a far funzionare il progetto: una faccia pulita, una bella voce, una scrittura dritta e pop. Mettendo su il disco - curioso che il titolo rimandi a quanto di più antitecnologico c’è, lo scrivere a mano - si potrebbe tranquillamente scambiare Mendes per un Ed Sheeran più giovane. Voce piena e calda, tendenza a ritmare le strofe in modo quasi sincopato o vicino al rap, con aperture melodiche, testi intimistici e diretti come si confà ad un ragazzo di quell’età: “Strings” è uno degli esempi più facili da citare, in questo senso, ma il disco è quasi interamente basato su questo canovaccio. “Life of the party”, primo singolo, è una canzone un po’ diversa, basata su piano e su un incedere marziale, ma è quasi un’eccezione, come il pop prodotto di “Something big”. Nei momenti migliori, Mendes prova a ricordare John Mayer, con qualche accenno di blues (l’intro di “I don’t even know your man”), ma in generale suona un po’ troppo pulito, per uno che è “nato dal web”, facendo cover con la chitarra acustica.
Ah, qua trovate una compilation dei migliori vine di Shawn Mendes. Ora lo usa soprattutto come piattaforma di marketing per il nuovo disco, con teaser e spot. Sic transit gloria digitalis.