James - LA PETITE MORTE - la recensione

Recensione del 06 giu 2014 a cura di Gianni Sibilla

Voto 8/10
In un mondo giusto, i James potevano diventare come i Coldplay. Anzi, dovevano diventare come i Coldplay, magari proprio al posto dei Coldplay. E’ il pensiero netto che si ha ascoltando “La petite morte”, primo disco di inediti in 4 anni della band di Manchester.

Invece sono una band famosa - ma non famosissima - in Inghilterra. Da noi sono talmente di nicchia che non fanno concerti da 21 anni - nel ’93 aprirono un tour di Neil Young assieme ai Bad Religion, fate un po’ voi. Torneranno quest’estate, per un festival in Umbria, ma solo perché è ideato e finanziato da un magnate anglo-indiano che è loro fan.

Scrivono grandi canzoni pop, grandi melodie, fanno grandi arrangiamenti, epici quanto basta per generare cori da concerto. Basta sentire l’iniziale “Walk like you”: 7 minuti di pura goduria pop, con finale in crescendo (e anche quell’assolo di tromba che negli anni ’90 fece le loro fortune in “Born of frustration”, uno delle loro maggiori hit).
Hanno più di una cosa in comune con i Coldplay: a tempo debito, e ben prima di Chris Martin e soci, Brian Eno se n’è innamorato, producendo il loro capolavoro (“Laid”, ’93, che li portò ad un successo americano, effimero). Hanno una carriera molto, ma molto più lunga - facevano parte dall’ondata pop-rock di Manchester di fine anni ’80, primi ‘90. Questo disco arriva dopo una serie di traumi, come “Ghost stories”, era frutto della separazione tra Martin e Gwyneth Paltrow. Ma,
come sostiene Paolo Madeddu , i Coldplay “Non hanno alzato l’asticella, hanno levato il materasso dall’altra parte”, con un disco minimale, un po’ cupo e doloroso come una caduta senza materasso, appunto. I traumi familiari di Tim Booth, evocati anche nel titolo (che ha un doppio senso: “La piccola morte” è pure l'orgasmo) invece hanno portato ad un disco tirato, raramente sottotono o segnato dall'understatement. Un teschio, sì, ma molto, molto colorato, come la copertina - che cita il Día de Muertos, il giorno in cui in Messico si celebrano i morti, festeggiando.
Al secondo pezzo, “Curse curse” partono già i tastieroni un po’ EDM (i James frequentano l’elettronica e ammiccano alla dance da tempi non sospetti). Al terzo, “Moving on”, infilano un’entro un po’ alla U2, al quarto, “Gone baby gone” si assestano su un giro di basso che si apre su un arpeggio, su una cassa dritta e su un ritornello altrettanto dritto e su una schitarrata. “Frozen Britain” è puro brit-rock della miglior specie.

E così via: ci sono le inevitabili ballate, gli inevitabili momenti riflessivi (“Interrogation” e soprattutto “Bitter virtue”, in punta di voce e chitarra); il finale è un po’ in calando, ma si riprende con il crescendo di “All I’m sayin”, che è il loro marchio di fabbrica.
Insomma, signori, questo è pop-rock di classe. Meno glamour dei Coldplay, meno glamour di altri nomi. La voce di Tim Booth è espressiva come poche, la scrittura della band e i suono sono perfetti e originali, frutto di anni di esperienza.

Non diventeranno più delle mega star, ma se lo sarebbero meritato - e finché continueranno a fare dischi come “La petite morte”, a chi li ascolterà andrà benissimo così.

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