Coldplay - GHOST STORIES - la recensione

Recensione del 13 mag 2014 a cura di Gianni Sibilla

Voto 8/10
Fa un certo effetto solo a dirlo, ma “Ghost stories” è solo il sesto disco dei Coldplay . Sembra siano in giro da sempre, non solo dagli anni zero. Un effetto derivato dalla densità della loro storia: piena di ottimi dischi, scelte musicali discutibili, di grandi canzoni e mega-hit (che spesso non coincidono) e fattori extra-musicali. Hanno colmato un vuoto - quello del gruppo epico - che gli U2, persi nella loro
grandeur , non sembravano più in grado di riempire. Sono sempre stati un po’ dei giovani vecchi, i Coldplay, erano già "classici" fin dall'inizio.

“Ghost stories” arriva all’indomani di un fattore extra-musicale: la separazione tra Chris Martin e Gwyneth Paltrow, comunicata con il giusto anticipo per non fare troppo ombra all’uscita dell’album ma ancora abbastanza recente da scatenare una caccia ai riferimenti nel disco - e chi vorrà ne troverà a bizzeffe, così come tanti sono i virgolettati di Martin che giocano sul “dico-non dico”, anzi “ne parlo ma non ne parlo”. A partire dal titolo, che fa riferimento ai fantasmi del passato. Volenti o nolenti, la vita privata di Martin è uno dei fattori che hanno reso i Coldplay delle star.

Ma non è tutto qui, e non è questo ciò che rende interessante “Ghost stories”. L’album arriva a due anni e mezzo da “Mylo xyloto” - l’album più pop della band, tanti (troppi?) colori messi assieme, come nella copertina. “Ghost stories” si allontana fin proprio dalla copertina, dai colori tenui, notturni (Opera di Mila Fürstová’: nello
streaming su iTunes è trasformata in un bel video animato con la regia di Alasdair + Jock della Trunk Animation).
“Ghost stories”, in sostanza, è un album minimalista, per quanto minimalisti possono essere i Coldplay. Ha una produzione decisamente più omogenea di “Mylo Xyloto” - opera in gran parte di Paul Epworth. Anzi è probabilmente il disco più omogeneo della produzione recente della band, forse più pure di “Viva la vida”. Lo si capisce fin dalle prime note di “Always in my head”, cori angelici su cui parte un beat e una chitarra appena accennata - e così via fino alla chiusura per piano, voce (ed effetti “ambient”) di “O”. Per dire, in “True love” c’è pure Timbaland, un produttore che solitamente non si fa notare per minimalismo o per understatement e per fortuna quasi non si sente, se non per un beat che colora la canzone.

Una delle chiavi di lettura della musica di questo periodo è la trasformazione dell’indie nel nuovo mainstream e del pop nel nuovo indie, con un’inversione di ruoli tra ciò che è di nicchia/cool e ciò che è popolare (e inevitabilmente un po’ meno cool): cantanti pop adorati e pompati da pochi “eletti” e band indie che sono fenomeni di massa - con conseguente snaturamento delle etichette originarie.

I Coldplay sono bravi a giocare su questo confine, pescando da entrambi i lati, correndo sul filo di pop e indie. Saccheggiando ora l’indie-mainstream (il vocoder di “Midnight” che richiama apertamente Bon Iver), ora dando una dimensione indie al pop più pop che c’è - i tastieroni EDM di Avicii in “A sky full of stars”, minimizzati con chitarrine, piano, pieni e vuoti che si riempiono e si svuotano. “A sky full of stars” è il pezzone che mancava a “Milo Xyloto”.
A voler ben vedere, i Coldplay arrivano in ritardo su tutti questi suoni, è vero: sia Bon Iver che la EDM non sono certo più avanguardie. Ma i Coldplay non sono mai stati dei grandi innovatori. Semmai, degli ottimi artigiani della canzone e dei suoni, con un’identità sonora forte e riconoscibile. Tutto confermato in “Ghost stories”: alla fine, è un ottimo disco. Tipicamente Coldplay ma anche un po’ diverso dal passato recente.

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