La soggezione che ispira quel posto ce l'ha raccontata lo stesso Ben Bridwell, nella recente intervista . Ma anche la magia, l'acustica: il risultato è spettacolare e tira fuori il meglio della band.
Perché i Band Of Horses erano arrivati un po’ ad un punto di stallo della carriera. Bravi, dicevamo. Perfetti rappresentanti della musica “Americana” - intesa come aggettivo e come genere - ma anche un po’ anonimi, ogni tanto, senza una personalità ben definita, con il rischio di diventare solo dei bravi rappresentanti, appunto. L’ultimo disco “Mirage rock” aveva lasciato qualche dubbio. Invece, spogliati da quasi tutto, riemergono per ciò che sono: ottimi autori di canzoni, bravi arrangiatori e interpreti.
Poi, sì: i dischi acustici hanno fatto il loro tempo, sono terribilmente démodé. Anche i BoH sono démodé. Ma è comunque difficile non innamorarsi della bellezza scarnificata di “Detlef Schrempf” o di “No one’s gonna love you”, delle melodie e della voce di Bridwell, della capacità di unire semplici giri di chitarra acustica ad arpeggi di piano. Basta sentire la versione di “The funeral”, forse la canzone più bella del gruppo già nelle potenti versione elettriche dal vivo: qua è ridotta a piano e voce, con pochi accordi di chitarra.
A tratti sembra un disco di inediti di una band californiana degli anni ’70, di quelli che ogni tanto qualche etichetta tira fuori da qualche archivio e immette sul mercato, spacciandole per gemme misconosciute di cui non si può fare a meno. Musica contemporanea senza essere contemporanea - e va benissimo così. Poi rimane da vedere dove andranno, ora che un ciclo è chiuso, ora che la band non ha più un contratto discografico (quello con la Sony è terminato al disco scorso). Ma questa è un’altra storia: adesso c’è questo splendido disco.