Narra questa leggenda che a Mellencamp - che da quelle parti è poco sotto i numeri 1 del rock - avessero chiesto un adattamento delle sue canzoni per Broadway. Mellencamp non è uno di buon carattere (vi ricordate le bizze ai suoi recenti concerti italiani? ), disse di no, secco. Poi raccontò la richiesta ad una persona, dicendo che lui avrebbe voluto scriverne uno nuovo, ripescando una vecchia storia maledetta del suo stato, l'Indiana. “Ci vorrebbe Stephen King, però”, commentò. Quell’uomo, Mellencamp non lo sapeva, era l’agente di King. Che è uno che di idee ne riceve tante, da gente importante. Spesso, dice King, sono pure brutte anche se la fonte è di primissimo livello. In quel caso, l'idea era buona, secondo King: i due si piacquero subito. King scrisse al volo 60 pagine da quell’idea: due fratelli che si odiano vengono portati in vacanza in una capanna dove altri due fratelli, quelli del padre, si sono ammazzati, anni prima - e sono ancora lì, come fantasmi.
Mellencamp scrisse una quindicina di canzoni, ma il progetto ci ha messo 12 anni a decollare, più uno per il disco: le canzoni sono state incise con la supervisione del miglior produttore di “Americana” - inteso come genere ultra-classico di rock cantautorale - T-Bone Burnett. E no, non è “Un Sgt. Peppers dell’Americana”, come lo ha definito modestamente lo stesso Mellencamp. Ma è un disco da avere per gli amanti del genere. Basta vedere i nomi coinvolti (guardate la tracklist in fondo).
E’ un disco scuro, cupo come la storia. Un album con punte di assoluta bellezza, come “You don’t know me”, “Tear this cabin down” di Taj Mahal, “Jukin’” di Sheryl Crow - quest’ultimo è uno dei pochi momenti dichiaratamente rock in un album che tende al blues, al country dark, anzi gotico. Si sente molto la mano di T-Bone Burnett nei suoni, nella ricerca e nella pulizia degli strumenti. Si sente molto ma molto meno la mano di John Mellencamp nella scrittura - che peraltro compare direttamente solo nell’ultima canzone, forse la più mellencampiana nella melodia e nella struttura.
Più che un “Sgt. Pepper”, “Ghost brothers of Darkland County” è un bigino dell’Americana. Un manuale, anzi, per usare un termine più "alto". Perché la musica esemplificata qua dentro è lontana mille miglia sia dal tipico, consolatorio musical pop e anche dal rock più schietto di Mellencamp. Comunque sia, l'album regge benissimo da solo indipendentemente dal musical di cui è colonna sonora. E' un album in cui di consolatorio non c'è veramente nulla, nella storia come nelle canzoni: ed è il suo maggior pregio, oltre al livello dei nomi che cantano.