Black Sabbath - 13 - la recensione

Recensione del 07 giu 2013 a cura di Andrea Valentini

Voto 8/10
Non sono pochi 35 anni: anzi, giustificano senza dubbio scetticismi e perplessità. E chi scrive, dello scetticismo e della perplessità (in caso di reunion di vecchie glorie e dinosauri del rock in primis) è cavaliere di gran croce. Dunque un album dei
Black Sabbath dopo 35 anni, con una formazione che all’inizio doveva essere originale al 100%, ma poi lo è divenuta al 75% – peraltro con un povero Tony Iommi sofferente e provato dalla malattia – non arriva decisamente annunciato dai migliori auspici. Al contrario, di primo acchito evoca quell’aroma di provola tanto gradevole in una fiera enogastronomica, quanto sospetto in caso di dischi: come dire… il primo pensiero è “Ci stanno provando, hanno finito i soldi”.
Ma è un errore pensarla così. Ozzy e i suoi avranno anche finito i soldi (e saranno affari loro, comunque), ma alla fine “13” è davvero molto, molto, molto meno peggio di quanto ci si potesse aspettare in preda al catastrofismo e al disfattismo più rock. E non è poco.
Partendo dal presupposto che la favola del ritorno dei Black Sabbath – come quella di qualsiasi altra formazione che ha avuto il suo momento di gloria 20,30,40 anni fa – è semplicemente roba da raccontare ai bimbi per propiziar loro una buona notte, “13” risulta comunque un album convincente, non destinato a fare la storia, ma in grado di evocare la grandezza di una band che ha segnato il cammino del rock con veri e propri capolavori seminali.

In questi otto brani la mano di Rick Rubin ha guidato la ritrovata compagine di Birmingham (meglio: originaria di Birmingham) verso una riscoperta delle sue radici più profonde, legate al sound blues e psichedelico degli anni Sessanta. Quindi il nome del gioco che si svolge nell’arena di “13” è proto-hard rock e proto-metal con inflessioni prog, così come lo si sarebbe suonato tra il 1969 e il 1971… ma con un delizioso spunto di modernità regalato dal batterista Brad Wilk (Rage Against The Machine), che non ha il tocco morbido e killer di Bill Ward, ma regala un feeling attuale e più violento ai brani.



Dall’apertura proto-doom di “End of the beginning” si capisce che la band c’è e non sta semplicemente smarchettando; lo conferma il singolo “God is dead?”, che se solo durasse la metà dei suoi otto minuti e 50 secondi sarebbe quasi perfetto. Ma la vera sorpresa giunge con il terzo brano, in cui si percepisce chiaramente la scintilla sabbathiana, quella che ce li ha fatti amare e studiare a menadito nel tempo che fu: “Loner”, dal riff pachidermico è quasi un viaggio nel tempo, quando l’heavy metal era ancora da inventare però c’era chi già lo suonava.

Il livello resta decisamente alto per tutto l’album, ma il vero momento clou è il brano numero sette, quella “Damaged soul” costruita come un blues barcollante, malato e velenoso… musica per anime stanche e sconvolte, che ti accompagna a fare un tour guidato in un panorama céliniano difficile da scrollarsi di dosso. Unico neo di un album che segna un bel ritorno è forse la produzione di Rubin, che, per quanto impeccabile a modo suo, poteva essere di sicuro più ruvida e “vintage”. Ma del resto il 1970 è andato da un bel po’…

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