Qui nascono, vivono e lavorano i Breton , il cui nome è un omaggio al poeta surrealista francese: cinque artisti che iniziano la loro carriera come videomaker e remixer per musicisti come Tricky, Local Natives, Sinead O'Connor, Temper Trap ed anche gli italiani Did (con i quali sono molto amici).
La composizione di musica è però parte integrante della loro arte e così snocciolano nel giro di due anni tre EP, con i quali attirano l'attenzione della Fat Cat Records. Grazie alla prestigiosa etichetta indie hanno l'opportunità di registrare il loro debutto sulla lunga distanza “Other people's problems”, per incidere il quale hanno potuto usufruire dello studio dei Sigur Ròs in Islanda. Ora, la prima riflessione che viene spontaneo fare ascoltando l'esordio dei Breton è: “Ma che musica fanno questi?”. Impossibile classificarli, troppe le contaminazioni e le variazioni sul tema. Art-rock? Forse.
Qui ci sono i Tv On The Radio che incontrano gli Strokes (nel singolo “Edward the confessor”), ci sono malinconiche ondate downtempo (“2 years”), c'è il nu-rave dei Klaxons (“Wood and plastic”), c'è l'elettronica in bilico tra dubstep e trip-hop dell'ottima “Ghost note” e della splendida “The commission”. E ancora l'hip-hop sbilenco e distorto di “Pacemaker” e “Oxides”, l'indie-pop solare di “Jostle” e due episodi in cui i Breton creano uno stile tutto loro, spremuto tra elettronica, indie-rock e sfumature 'negre': “Governing correctly” (che bel titolo di questi tempi) e “Interference”.
Ascoltando i Breton si intuisce che ci si trova di fronte ad una band vera, un gruppo capace fin da subito di creare un proprio sound e lasciare in qualche modo piacevolmente confusi. E così anche vedendoli dal vivo (sempre la prova del nove), dove stupisce la loro capacità di tenere egregiamente il palco nonostante la poca esperienza alle spalle. “Other people's problems” è un album d'esordio imperfetto, ma che lascerà il segno. E' un investimento, i cui risultati si vedono già oggi, e probabilmente saranno ancora migliori domani.