Tom Waits - BAD AS ME - la recensione

Recensione del 18 ott 2011 a cura di Gianni Sibilla

Voto 10/10
Qual è il Tom Waits che vi piace di più? Quello apparentemente disordinato e rumorista? Quello rarefatto e lirico? Quello che come nessun altro reinterpreta i suoni del rock e del blues delle origini? Il narratore di storie surreali? Perché in “Bad as me”, quel Tom Waits c’è. C’è persino il Tom Waits notturno e jazzato che non ascoltavamo da chissà quanto tempo. E tutto questo senza che “Bad as me” - 17° disco di studio, il primo di inediti in 7 anni da “Real gone” - suoni come un disco autoindulgente o autocitazionista. Perché Waits è sempre stato l’opposto di queste due caratteristiche tipiche di tanti artisti della sua età, della sua fase della carriera. E continuerà ad esserlo.

“Bad as me” è un piccolo capolavoro, nella sua varietà. L’inizio inganna, con un rock scuro in puro stile Waits, dedicato alla città del Blues, Chicago, in cui si fondono tre immensi musicisti: i fiati di David Hidalgo (Los Lobos) e le chitarre di Keith Richards e di Marc Ribot. E’ una delle canzoni che anticipano uno dei temi del disco, ma di certo non l’unico. E sì, per la cronaca, Richards e Ribot si ritrovano a sfidare le chitarre anche in “Satisfied” - omaggio a “Satisfaction" e ai Rolling Stones, in cui Waits cita direttamente Jagger e il suo alter ego. Ma non è il momento migliore del disco: è “solo” una bella canzone, la logica prosecuzione di quel filone “roots”-rumorista che Waits frequenta dagli anni ’80, da quando passò alla Island dopo il periodo “notturno” della Asylum. Un filone in cui Waits si sbizzarisce anche questa volta (soprattutto in “Hell broke luce”)
No, i momenti migliori del disco sono quelli lirici. Il momento più bello di di Richards, per intenderci, non è dato dalla sua chitarra (che compare in 4 brani), ma dalla sua voce rotta che fa da contro canto a quella di Waits in “Last leaf”, ballata acustica emozionante, che ricorda i fasti di "That feel" ("Bone Machine", 1992, che i due scrissero e cantarono assieme).

Su questo genere ci sono tanti esempi, in questo disco. C’è “Face to the highway”, c’è “Back in the crowd”. C’è la finale ed emozionante “New year’s eve”, con una dizione ed una cantilena che ricordano un altro maestro, Leonard Cohen, con una melodia che cita la canzone di fine anno per eccellenza, “Auld lang syne”.

E c’è soprattutto “Kiss me”. Dove riaffiora il Tom Waits che non ti aspetti: quello notturno della prima fase della carriera, del periodo Asylum. Contrabbasso in primo piano, chitarra e poi piano in lontananza, lui che canta “Kiss me, kiss me like a stranger once again”. Quelle atmosfere da “Nighthawks at the diner” che Waits sembrava avere rinnegato da tempo, quelle che lo hanno fatto conoscere a molti di noi. Lo promettiamo, Tom: se un giorno deciderai di tornare a fare questa musica, non ti accuseremo di essere autoindulgente. Ascolteremo rapiti, e basta.
Non è l’unica canzone dove si sente il piano, completamente rinnegato in “Real gone”. Anche se è evidente, come hanno notato su Mojo, che il suono distintivo della musica di Waits è la chitarra di Marc Ribot, presente praticamente in tutte le canzoni e ormai parte del DNA di questo artista.

Ma questa volta Waits ha deciso di presentare tutti, ma proprio tutti i lati della sua musica, offrendoci la sua musica migliore da quelle “Mule variations” che l’hanno riportato sulle scene alla fine degli anni ’90 e che hanno inaugurato un decennio davvero memorabile. Un decennio (12 anni, per la precisione) che trova il suo punto più alto in questo gioiello dal titolo di “Bad as me”.

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