Eddie Vedder - UKULELE SONGS - la recensione

Recensione del 06 mag 2011 a cura di Gianni Sibilla

Voto 5/10
Non ci si sarebbe mai immaginati di trovarsi a parlare men che bene di una qualsiasi produzione musicale dei Pearl Jam o di Eddie Vedder . Nomi che sono garanzie, che non fanno mai musica buttata lì. Nomi che, certo, rischiano spesso la sovraesposizione discografica, con le ormai infinite pubblicazioni live. Ma sugli album “di studio”, su quelli ci si poteva scommettere ad occhi chiusi.

Questo preambolo per dire che “Ukulele songs”, il secondo disco solista di Eddie Vedder dopo la colonna sonora di “Into the wild”, è una mezza delusione. Solo mezza, perché le prime cose sentite in rete, i singoli circolati nei giorni scorsi, non facevano impazzire, o meglio già lasciavano presagire che reggere un disco intero sui quei toni non sarebbe stato facile.
Sono anni ormai che Vedder flirta con lo strumento: lo ha usato in diverse circostanze, con i Pearl Jam e da solo; in rete si vagheggia addirittura di un “lost record” datato all’inizio dello scorso decennio. Nel frattempo l'ukulele è diventato di moda, tanto da guadagnarsi articoli su importanti quotidiani americani . Altri dischi sono già usciti, come quello di Amanda Palmer dedicato alla rivisitazione con lo strumento delle canzoni dei Radiohead .
“Ukulele songs” è un disco strano nella composizione: contiene canzoni già pubblicate dai Pearl Jam (“Dream a little dream”, "Can't keep", da "Riot act"), qualche cover (“Sleepless nights” degli Everly Brothers, gà incisa per pubblicata su un singolo natalizio dei PJ e qua cantata con Glen Hansard dei
Frames e degli Swell Season , ) e molte canzoni originali scritte allo strumento, che Vedder ha accumulato negli anni; alcune vennero presentate nel corso di un paio di concerti a Los Angeles del 2002 che i fan si ricordano bene e che sono circolati come bootleg. Ma non è questa eterogeneità a rendere debole l’album. Non è neanche rovinato dalla quantità: ci sono sì 16 brani (14, in realtà: due sono intermezzi strumentali), ma tutti molto brevi; il disco non arriva ai 35 minuti complessivi.
Il problema è che il tono rimane lo stesso, praticamente sempre, sia a livello sonoro che a livello vocale. Un tono monocorde – anzi quadri-corde se ci perdonate la battutaccia. Un problema strutturale dovuto alla limitata paletta sonora dello strumento, che non viene neanche usato in maniera particolarmente ritmica. Il disco parte bene con una versione bella ritmata di “Can’t keep”, prosegue bene con “Sleeping by myself”, “Without you” e soprattutto con “More than you know”. Ma dopo poche canzoni il gioco si fa ripetitivo e il rischio sbadiglio è dietro l’angolo: va bene che sono "lullabies", ninne-nanne, però... Salvo eccezioni come “Broken heart” o come i toni baritonali dello standard “Dream a little dream”, la voce di Vedder è sempre sulla stessa tonalità, delicata più che piena, e non cerca grandi evoluzioni; e salvo eccezioni come “Longing to belong” in cui si sentono degli archi che arricchiscono il suono, non c’è neanche il tentativo di andare oltre ai limiti dello strumento.

Ci sono momenti molto intensi, come i due duetti (oltre al già citato con Hansard, anche quello con Cat Power , su "Tonight you belong to me"), ma nel complesso “Ukulele songs” scorre via senza lasciare il segno, come ci si aspetterebbe da uno come Vedder: suona più come un piacevole divertissement che come un disco vero e proprio. Di certo non raggiunge le vette di bellezza e intensità di quel capolavoro che fu “Into the wild”, che pure era un altro disco minimale. Probabilmente sarebbe bastato un EP; comunque ci sarà sempre l’occasione di rifarsi almeno parzialmente con "Water on the road", DVD dal vivo che uscira a fine maggio assieme al disco, e che presenterà un Vedder in versione solista, ma non solo alle prese con l’ukulele.

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