PJ Harvey - LET ENGLAND SHAKE - la recensione

Recensione del 13 feb 2011 a cura di Gianni Sibilla

PJ Harvey è un’artista. Un’artista vera, mica in senso lato. La parola non è, nel suo caso, usata a sproposito come spesso avviene per quelli che fanno qualche album e si sentono (e si comportano come) dei geni.

PJ Harvey è un’artista, è una che potrebbe campare di rendita e invece propone sempre qualcosa di nuovo, di diverso. “Let England shake” è il suo primo disco da “White chalk” del 2007 (anche se in mezzo c’era stato il lavoro a due con John Parish). E riporta la nostra ai suoi livelli migliori. “White chalk” era un disco ostico, cupo e intellettuale, più bello in teoria – con il suo minimalismo – che nella pratica. “Let England shake” non è meno pensieroso, ma ha quella sorta di magia che riesce solo ai grandi artisti, e neanche sempre, ovvero quella di saper coniugare le idee con la piacevolezza della fruizione.
Come lascia intuire il titolo, “Let England shake” è un album a tema sulla propria terra. PJ Harvey torna a raccontare e a cantare, come nel suo capolavoro “Stories from the city, stories from the sea”? Le prime cose lasciate trapelare in rete, su tutte “The last english rose”, lasciavano supporre che la strada fosse quella. In parte è così: perché in questo album, PJ Harvey ritrova il gusto della canzone-canzone, delle chitarre. Però gioca sempre a spiazzare, anche se in un modo più sottile rispetto a “White chalk”, per esempio inserendo una tromba da battaglia (la guerra è uno dei temi dominanti del disco), che entra quasi fuori tempo su “The glorious land”, e la prima volta ti chiedi se non arrivi da qualche altra parte, se sul computer c’è qualche applicazione che disturba la riproduzione. Un giochino ripetuto diverse volte nel disco, quello di inserire suoni dissonanti nelle canzoni, che conta anche un campionamento reggae su “Written on the forehead”.

“Let England shake” è tutto sommato un disco abbastanza diretto, per come può esserlo PJ Harvey. un disco in cui Polly sfoggia tutto il suo campionario, e anche qualcosa di più: dal rock scuro di “The world that maketh murder” (a là Nick Cave , fin dal titolo), al minimalismo “Hanging in the wire”.
Forse, quando abbiamo ascoltato il rock diretto di “Stories”, abbiamo pensato che quella potesse essere l’evoluzione di Polly Jean, da “Dry” ad un rock dritto, davvero una nuova incarnazione moderna di Patti Smith . Con il senno di poi, quella è stata una (bellissima) deviazione di un percorso che era e rimane decisamente più articolato. “Let England shake” ci riporta una PJ Harvey non meno concettuale ma decisamente meno involuta, in grande forma, con uno dei suoi dischi più vari, completi e migliori.

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