(Alfredo Marziano)
Decemberists - THE KING IS DEAD - la recensione
Recensione del 12 gen 2011
Voto 9/10
Il coraggio – o era avventatezza? – non sempre paga. E così, nel 2009, l’ambizioso “concept album”
“The hazards of love”
ha incassato molte più critiche (anche feroci, anche immeritate) che lodi. Colin Meloy, l’occhialuto
nerd
dalla vista lunga che regge da sempre il timone dei
Decemberists
, tra i migliori retro-progressisti d’America di questi ultimi anni, si era abituato alle coccole dei giornalisti e dev’esserci rimasto male. Fatto sta che ha prontamente ingranato la retromarcia, e allo yin di quell’album “prog-folk-metal” da lui stesso definito un “musical mancato” risponde oggi con lo yang di “The king is dead”, titolo morrisseyanamente evocativo (nel 1986 gli
Smiths
pubblicavano “The queen is dead”, ricordate?) per una collezione di canzoni semplici, lineari e cristalline come non mai: il “John Wesley Harding” o il “Nashville skyline” dei cinque di Portland, non fosse altro che per quei chitarra & armonica dylaniani che sbocciano a ripetizione dai solchi o dai bit. Dieci canzoni (niente suite, nessuna fiaba allegorica o astruso sottotesto, stavolta!), poco più di quaranta minuti di musica già ascoltabili interamente in streaming sul sito di NPR anche se l’album esce solo il 18 gennaio (sul Website della band è in preordine anche una costosa edizione deluxe che include anche la versione in vinile, un dvd e un libro fotografico). Al primo impatto si arriva già al cuore del disco, perché “The king is dead” ha il pregio dell’immediatezza e della comunicativa: i cinque giovanotti dell’Oregon, barbe occhiali e aria rustica da contadini del rock, sono tornati scientemente alle loro radici college, a quel suono indie americano solidamente piantato nei primi anni ’80 di
10,000 Maniacs
e
R.E.M
. E il fatto che in tre titoli squillino le Rickenbacker di Peter Buck in persona rende il loro proposito ancora più autentico ed esplicito: pure troppo, se è vero che il jingle jangle chitarristico e la batteria di “Calamity song” (lo ha già osservato qualcun altro, ma non si può che sottoscrivere) fanno subito venire in mente una outtake o a una
ghost track
da “Murmur” o da “Reckoning” quasi trent’anni dopo. Ancora più puntuale e presente (ed è una presenza forte ma discreta) è il controcanto di
Gillian Welch
, reginetta dell’alt.country più old-fashioned e in odor di folk appalachiano. Cosicché ogni residuo dubbio viene fugato: con Gillian, solida e tosta country girl, al posto della fatina Becky Stark e della strega cattiva Shara Worden coprotagoniste di “The hazards of love”, i Decemberists versione 2011 inclinano decisamente sul versante alt.country/roots privilegiando suoni acustici ed essenziali e scegliendo sempre la traiettoria più rapida e lineare tra il punto di partenza e quello di approdo. Da intellettuale di ottime letture quale è, Meloy non rinuncia al vezzo di parole desuete e ai suoi eleganti (talvolta leziosi) ghirigori verbali. Ma la musica no, quella bada al sodo e all’essenziale. L’intro di “Don’t carry it all” non fa pensare ad Emerson, Lake & Palmer tanto amati dalla polistrumentista Jenny Conlee ma piuttosto al
Neil Young
di “Harvest”, armonica, batteria secca e chitarra acustica contornati da violino, mandolino e fisarmonica mentre Meloy, timbro squillante e pronuncia nitida sempre in primissimo piano nel missaggio, invita a brindare ai cambi di stagione. Ecco allora un “inno di gennaio”, che evoca i vecchi Maniacs di
Natalie Merchant
, e un “inno di giugno” dall’abbrivio decisamente dylaniano, in un clima generale decisamente più ottimista del solito (nessuna “murder ballad”, nella circostanza) e un suono countreggiante (quasi una novità esotica, per Meloy & C). abbinato ai canti marinari e ai sapori celtici che da sempre fanno parte del dna e del retaggio storico-geografico del gruppo del Nord Ovest: “All arise!” strizza un occhio al “Country honk” dei
Rolling Stones
e un altro alle square dance che si ballano sull’aia, mentre il
fiddle
mena la danza in un’atmosfera leggera, contagiosa e spensierata; e “Box in the rox”, ritmata e incalzante, è così intrisa di Irlanda da incorporare una citazione del famoso traditional “Raggle taggle gypsy” già nel repertorio di tantissimi revivalisti ma anche di Mike Scott dei
Waterboys
ai tempi di “Room to roam”. Buck si fa sentire, eccome, anche in “Down by the water”, e sono di nuovo sapori forti di R.E.M. con l’umore giusto per spopolare nelle college radio dentro e fuori il Web; l’ombra di Young si allunga ancora sulla suggestiva chiosa di “Dear Avery” (strofa malinconica, inciso solare e arioso), e il sapore un po’ western di “This is why we fight”, l’episodio più rock, aggressivo ed elettrico della raccolta, piacerebbe sicuramente anche all’ultimo Billy Bragg. Resta da dire di “Rise to me”, probabilmente la migliore del mazzo, con quel mix dolce e fragrante di pedal steel, sei corde acustica e armonica che firma inconfondibilmente il suono di questo album. Un disco fresco e piacevolissimo, sicuramente meno avventuroso e impegnativo dei precedenti. La messa a fuoco definitiva, la prova della maturità dopo cinque dischi di varia ed effervescente ispirazione? Mah, i Decemberists sono una band vivace e intelligente, curiosa e autoironica. Capace, come poche altre oggi, di sorprendere, di sovvertire i pronostici e di rimescolare le carte. Scommettiamo che la prossima volta cambiano di nuovo direzione?
(Alfredo Marziano)
(Alfredo Marziano)
Tracklist
01. Don’t carry it all
02. Calamity song
03. Rise to me
04. Rox in the box
05. January hymn
06. Down by the water
07. All arise!
08. June hymn
09. This is why we fight
10. Dear Avery