Però il fatto è che appena uno inizia ad ascoltare questo album, si torna indietro nel tempo, e si assiste all’eterno ritorno dell’uguale e nel senso buono dell'espressione. Prima di mettermi a scrivere queste righe, sono andato a rileggermi cosa avevamo detto a Rockol dei dischi precedenti, in particolare di “Synkronized” e di “A funk odissey” e la tentazione è stata forte: riprendere le recensioni, cambiare qualche parola qua e là, e far finta che le avessi scritte io, adesso. Tanto i Jamiroquai ., o meglio Jay Kay, fanno sempre la stessa musica: un mix riuscitissimo di rock, funk, dance che pesca a piene mani da Stevie Wonder ; probabilmente non riusciranno mai a bissare le vette del disco d’esordio, “Emergency on planet earth” (1993); ci si sono avvicinati qualche volta, soprattutto con “Travelling without moving”. Ma allo stesso tempo non se ne sono neanche mai allontanati più di tanto.
Così questo “Rock dust light star” – primo lavoro per la Universal dopo una vita passata alla Sony – è un ottimo disco che non dice nulla di nuovo. Il titolo ammicca ad un suono meno funky e più rock, ma questo si verifica solo in un paio di pezzi, soprattutto in “Hurtin’”, con quel riff di chitarra quasi alla Ac/Dc, o in “Goodbye my dancer”, anch’essa molto chitarristica ma orientata al reggae, stile Police. Le sa scrivere le canzoni, Jason, e le sa arrangiare come pochi altri: in pratica questo genere di funky-rock l’ha inventato lui, e ne ha ancora il copyright: basta sentire il singolo “White knuckle ride”, o il giro di basso che apre “All good in the hood”: ricorda in maniera impressionante, almeno nelle prime battute, “Another one bites the dust” dei Queen, ed è un gran complimento.
“Rock dust light star” è un signor disco, va detto e ripetuto a scanso di equivoci. Nostalgia e nostalgici a parte, bisognerà vedere come verrà accolto in un mondo musicale che è molto cambiato da quei primi anni ’90 in cui ci si ritrovò tutti a canticchiare e ballare questo sound. Jay, lui fa quello che deve fare, e lo fa bene.