Rancid - LET THE DOMINOES FALL - la recensione

Recensione del 16 lug 2009

Al primo ascolto di “Let the dominoes fall” un senso di benessere imprevisto mi pervade. Come una pianticella irrorata dopo il lungo tempo dell’aridità mi sento rinascere. La afosa calura di questa estate milanese mi sembra quasi sopportabile. Temo di essere caduto nel tranello empatico che spesso mi tendono il punk e i suoi derivati e allora decido di lasciare che il tempo faccia lentamente il suo corso e che la notte porti consiglio. Lascio posare questo primo ascolto e mi dedico al minuscolo orto che ho sul balcone.

Come informato qualche riga sopra, ho il punk e i suoi derivati tra le debolezze che, penso, ormai, mi accompagneranno sino alla fine dei miei giorni, però non sono tra quelli che attendevano con ansia e impazienza l’uscita, dopo ben sei anni di attesa, del nuovo cd dei Rancid e, invero, non ero neppure molto preoccupato del fatto che questo fosse il primo lavoro con il nuovo batterista Branden Steineckert dopo l’uscita dal gruppo, nel 2006, di Brett Reed.
“Let the dominoes fall” ha in cabina di regia Brett “Religion” Gurewitz (il deus ex machina dei Bad Religion e della Epitaph), si compone di 19 canzoni per un totale di 45 minuti, il settimo album dei Rancid non mi delude neppure agli ascolti successivi. I numerosi piatti che portano in tavola i quattro conquistano per semplicità e genuinità lasciando in un angolo l’originalità fine a se stessa. Originalità che, a dirla tutta, non è mai stata il loro cavallo di battaglia, ma questo è un discorso che diventerebbe lungo e noioso allora meglio girare alla larga e non andare oltre. Dal tempo degli esordi, il 1993, i testi delle loro canzoni sono inevitabilmente più maturi ma l’approccio è sempre molto onesto. Proprio questa riconosciuta onestà ha fatto sì che i
Rancid non abbiano perduto i propri tifosi cammin facendo.
Quindi: che siano ballate dove è il basso prepotente a farla da padrone oppure selvagge cavalcate punkies da poco più di un minuto con urla sguaiate d’ordinanza oppure ancora uno ska impreziosito dalla tastiera di Booker T. Che siano rock tamarri fuori posto oppure che si abusi degli stilemi del punk a loro più caro e che si giochi ancora una volta a fare i bad guys, che il microfono sia di Tim o di Lars oppure che siano semplicemente reggae suonati da yankee visi pallidi oppure sonorità che si rifanno alla fiera tradizione del folk e delle radici… tutto questo poco importa, tutto questo ha un suo perché e funziona. E se funziona buona parte del merito è da ascrivere alla già citata onestà.
Insomma, proprio un bel regalo quello confezionato dai californiani…ora che ci penso, mi viene una piccola idea…profittando del fatto che in casa non c’è nessuno, rimetto il cd dall’inizio, alzo il livello del volume qualche tacca sopra il livello di guardia e inizio a saltare scomposto per la stanza scimmiottando Tim Armstrong e mi tuffo indietro nel tempo. E’ un’operazione del tutto innocua e sono certo che lui capirebbe. Entrambi siamo partiti sognando
Joe Strummer . Lui ci è arrivato più vicino, lui ce l’ha fatta. Grande !!!


(Paolo Panzeri)

Tracklist

01. East bay night
02. This place
03. Up to no good
04. Last one to die
05. Disconnected
06. I ain’t worried
07. Damnation
08. New Orleans
09. Civilian ways
10. The bravest kids
11. Skull city
12. LA river
13. Lulu
14. Dominoes fall
15. Liberty and freedom
16. You want it, you got it
17. Locomotive
18. That’s just the way it is now
19. The highway

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