Con “Time the conqueror” Browne torna a guardare in faccia l'ascoltatore – pur dietro i riflessi di un paio di occhiali: ma mostra i segni del tempo “conquistatore”, con un inedita barbetta bianca.
Per il resto, poco è cambiato, per fortuna: Jackson fa la stessa musica da trent'anni e passa, per fortuna: un rock semplice e diretto, basato su chitarra e piano, sulla sua splendida e calda voce e su canzoni scritte come Dio comanda. Si sono persi per strada i pessimi suoni degli anni '80 , per un ritorno alle origini già dagli anni '90. “Time the conqueror” non fa eccezione: un disco solido, persino migliore di “Naked ride home” perché meno dispersivo. Una lezione di stile a tanti giovani virgulti cantautorali contemporanei, un disco che probabilmente a chi cerca la novità a tutti i costi sembrerà troppo retrò o troppo “Adult”, come direbbero in America. Ma pazienza.
L'unica cosa che stride in queste canzoni, semmai è il piglio apertamente politico dei testi. Una caratteristica che Browne – nato come cantante “confidenziale” negli anni '70 – ha fin dagli anni '80, e che recentemente gli è valsa un'affettuosa presa in giro dal conterraneo Randy Newman (che nel suo ultimo album canta più o meno: a nessuno importa più di niente, tranne a Jackson Browne). Ma in canzoni come “The drums of war”, “Where were you” o “Going down to Cuba” questa rabbia sfocia in testi un po' troppo didascalici, che rischiano di rovinare le melodie e le armonie ben costruite. Meglio, decisamente, quando Browne torna sui temi più personali come nella title-track, un piccolo capolavoro.
Insomma, il tempo passa senza passare, in realtà: se non fosse per questi accenni alla realtà che ci circonda, “Time the conqueror” è un disco che potrebbe essere stato inciso 30 anni fa. A voi decidere se è un pregio – per chi scrive lo è – o un difetto.