E' un disco strano, come è strana lei: le canzoni sono state scritte prevalentemente al piano, e PJ Harvey dice di essersi sforzata a cantarle con la sua voce vera, non quella impostata dai troppi ascolti di blues. Tradotto: qua non c'è la PJ Harvey che conosciamo, in nessuna delle sue incarnazioni precedenti. "White chalk" è un disco di canzoni minimali, sbilenche, ma con un loro fascino particolare. Un fascino un pò perverso - a quello PJ Harvey ci ha sempre abituato - ma anche claustrofobico e soffocante. Gli accenni alla melodia lineare sono pochi, qua dentro; e anche quello che dovrebbe essere il singolo, "When under ether" non ha di certo un ritornello. Sono poche o nessuna le canzoni di "White chalk" che ti rimangono in testa, forse l'iniziale "The devil", o la title-track, perché assomiglia ad una ballad acustica. Ti rimane appiccicata invece l'atmosfera, nel bene e nel male.
PJ Harvey voleva dimostrare di essere un'artista vera, con una propria visione delle cose e della musica. Da questo punto di vista "White chalk" è riuscitissimo: è un disco personale, che non assomiglia a niente altro. Però rischia anche di essere un vicolo cieco, che allontanerà molti ascoltatori da un'artista che già di per sé è tutt'altro che facile. Insomma, onore al coraggio. Però, anche se apprezzerete "White chalk", è probabile che non vi venga voglia di metterlo su spesso, a meno che non abbiate tendenze depressive...