E' difficile dire a quale categoria appartenga Seth Lakeman, anche se l'ultima la si può tranquillamente escludere: sicuramente la sua storia non è costruita. Sta di fatto che il disco precedente, “Kitty Jay” è stato registrato in casa con 300 sterline, ed è arrivato a guadagnarsi una nomination del Mercury Prize, un premio prestigiosissimo in Inghilterra.
Lakeman arriva dal Devon, è cresciuto con il folk inglese, e in questo disco ha avuto qualche strumento in più per registrare la sua musica. Ma ha comunque prodotto un piccolo gioiello, con questo “Freedom fields”: 13 canzoni di cantautorato folkeggiante, che non assomigliano né a nessuno dei nuovi cantautori inglesi citati prima, né a nessuna delle loro fonti (Nick Drake, per intenderci).
“Freedom fields” è un disco semplicissimo, con pochi strumenti (chitarra acustica, qualche violino e banjo, una sezione ritmica molto discreta), ma con radici ben solide nel folk angloirlandese. Uno di quei dischi che ti capitano in mano quasi per caso, senza saperne niente (come è successo a chi scrive) e poi non riesci più a liberartene per la forza delle canzoni, per la forza espressiva del cantante. E' tutt'altro che malinconico, Lakeman, o quantomeno non lo è come lo sono Rice o Gray. Le sue canzoni sono aperte, ariose; spesso assomigliano a delle gighe, come “The colliers”: mettono allegria, anche se magari parlano di argomenti non proprio spensierati ma legati al sociale (e non è un caso che Seth abbia aperto diversi concerti di Billy Bragg).
Insomma, un'altra bella scoperta che arriva dall'Inghilterra: un nome da appuntarsi non solo per il futuro, ma anche per il presente.