Ciò che rende strano il loro caso è che l'identità che i Muse si sono scelti per questa scalata all'olimpo del rock è fatta di riferimenti ad un suono per certi versi tra i più bistrattati della storia: il progressive.
Una delle cifre dei Muse è sempre più diventata quella di lunghe progressioni strumentali, divagazioni e l'uso di cori e tastiere che si rifanno agli anni '70. “Black holes and revelations” non fa eccezione, anzi calca ancora di più la mano in questa direzione. Certo: si apre con canzoni come “Starlight” che rimandano al lato più pop del gruppo, quello di “Time is running out”, che li aveva fatti esplodere tempo fa. E, certo, il nuovo singolo “Supermassive black hole” potrebbe essere tranquillamente scambiato per il nuovo singolo di Prince. Ma più va avanti il disco, più i Muse si addentrano in questo territorio, tanto che in alcuni casi si va oltre al progessive, arrivando direttamente all'hard rock anni '70: i coretti e le schitarrate di “Knights of Cydonia” sembrano sbucare da un demo di “Bohemian rhapsody” dei Queen.
Come questo suono, quello più retrò e progressive, riesca a far impazzire così tanti giovani – come è successo nella recente anterprima milanese dal vivo dello scorso 7 giugno - rimane un mistero. Certo è invece che questo disco è, nel suo genere, un capolavoro: di pomposità quanto di capacità artistica. Insomma, i Muse sono bravi e magniloquenti: all'ascoltatore la scelta di quale è la caratteristica predominante.