Frankie non sta zitto, anzi. Semmai ci mette un po’ a parlare: “Ero un autarchico” è il terzo album in 11 anni e segue di sei “La morte dei miracoli” – quello di “Quelli che benpensano”, per intenderci. Ma forse è vero che per parlare bisogna avere qualcosa da dire, piuttosto che aprire di bocca e dargli fiato, come fanno tanti musicisti. Qua di parole ce ne sono tante, ma nessuna fuori posto. Perché a differenza di colleghi “presunti rapper”, Frankie ha il dono della rima, ma anche della melodia e della musica.
Quasi funambolico nella costruzione sintattica delle frasi, “Ero un autarchico” stupisce ancora di più per come la parola è contemporaneamente significato e suono: dice qualcosa eppure costruisce una linea da seguire come se fosse uno strumento. E poi si inserisce su una struttura che è di musica vera, dove i suoni sono a loro volta significato. Per intenderci, sentite come in “Raplamento” Frankie usa la sigla di “90° minuto” per costruire un brano che parla di politica usando la metafora del calcio. O sentite il singolo “Chiedi chiedi”, invettiva contro certe figure del music business costruita su una chitarra quasi ossessiva, con un ritornello cantabilissimo costruito sulle alliterazioni (“Tu chiedi chiedi e non dare mai/ Mi domandi di dare quello che non sai, ma rimandi a domani i dividendi miei/ e rimando ti mando dove rimarrai”).
O che dire ancora di “L’inutile”, “meta-rap” che parla di se stesso, dichiarando la propria vacuità come non fanno molte canzone riempitivo di cui abbondano i dischi odierni? Intelligente e divertentissima, come i siparietti con Paola Cortellesi.
Ecco, Frankie non è uno che uno che “ha bisogno di riempire il minutaggio”, perché ogni minuto su questo disco è zeppo di idee mai banali, che quasi ti stordiscono per quante sono. Per questo bisognerebbe inventarlo, se non ci fosse; e per questo è sopravvissuto all’ondata modaiola della “scena rap italiana”: semplicemente perché è ben di più di un “rapper”, è un musicista intelligente come pochi.