Blur - THINK TANK - la recensione

Recensione del 01 mag 2003 a cura di Gianni Sibilla

Ci sono musicisti che possono sembrare spocchiosi e un po’ supponenti. Ci sono musicisti che vengono presentati in malo modo dalla stampa, soprattutto da quella inglese, che insiste su gossip e su cavolate varie. Poi c’è la musica, e se quella funziona, tutto questo va a farsi benedire, e si possono (finalmente) ascoltare belle canzoni.

E’ decisamente il caso dei Blur. “Think Tank” è il loro primo disco di studio in 4 anni, ed il primo senza il chitarrista Graham Coxon. Negli ultimi anni si è parlato di loro soprattutto per i progetti paralleli di Damon Albarn (i Gorillaz su tutti) e poi per questa separazione, avvenuta con grande clamore, per gioia dei tabloid musicali. L’immagine che ne è venuta fuori del gruppo è quella che è. Poi arriva questo album e, per fortuna, tutto il resto passa in secondo piano.
“Think tank” è quello che si potrebbe definire un album “sperimentale”. Nel senso che del “suono Blur”, quello che molti hanno identificato con il “brit pop”, qua non c’è alcuna traccia. E nel senso che Albarn e soci hanno portato avanti, quasi all’estremo, alcune idee sonore già percorse in “13”, soprattutto per quanto riguarda il tessuto e la stratificazione dei suoni. Ma allo stesso tempo, non hanno perso di vista il fuoco, registrando canzoni che sono comunque (quasi paradossalmente) melodiche, o almeno piacevoli.
Il punto è che, in “Think tank” i Blur dimostrano di divertirsi, e divertendosi fanno buona musica. Come nel rock sporco di “Crazy beat”, nel punk di “We’ve got a file on you”, nelle reminscenze dei Clash più etnici di "Moroccan peoples revolutionary bowls club". O come nel capolavoro del disco, il singolo “Out of time”: una perfetta sintesi tra melodia e sperimentazione.

Quando li abbiamo intervistati, Albarn e soci ci hanno detto che ognuna di queste canzoni potrebbe essere un percorso a se stante per un disco. Ed è vero, nel bene e nel male. Il pregio, ed anche il limite, di “Think tank” è la sua eterogeneità. Non si sente la mancanza di Graham Coxon (che firma e suona solo nella finale "Battery in your leg"), ma forse, in certi momenti si ha l’impressione che ci sia troppa carne al fuoco. Ma questa carne, ed è quello che conta, è tanta, ottima e succulenta: buona abbuffata, quindi.

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