Tutto bene, dunque: il primo concetto è che Santana è un genio della musica e che arrivato abbondantemente alla mezza età “tiene botta” meglio e più di certi suoi colleghi più giovani, mostrando di avere ancora energie e creatività da vendere.
Il secondo concetto è che il genio in questione, lungi dall’essere geloso della propria arte, ama dividerla, parcelizzarla, frammentarla: e allora ecco, come e più che in “Supernatural”, piovere copiose le collaborazioni. Alcune delle quali sono convincenti, altre meno, altre decisamente improbabili: la sensazione è che Santana abbia voluto andare incontro a tutti per non scontentare nessuno, ma forse la sua musica non va bene proprio con tutte le altre, e questo qualcuno dovrebbe avere il coraggio di affermarlo prima o poi. Scendendo un po’ nel dettaglio, in questo disco entra un po’ di tutto, dal rock al jazz all’R&B, dalle percussioni africane ai ritmi cubani al soul alla dance, e la chitarra fluida di Santana se ne sta nel background ad amalgamare il tutto. A volte l’esperimento funziona: è il caso del singolo di lancio del disco, “The game of love”, con Michelle Branch che sembra perfettamente a suo agio nel clima pop anni Sessanta del pezzo. Poi ci sono interessanti duetti con Dido (“Feels like fire”), Macy Gray (“Amoré - sexo”), Ozomatli (“One of these days”), e fin qui tutto bene. Non convince, invece, “America” suonata con i P.O.D, né l’improbabile “Novus” con un Placido Domingo completamente slegato dal nostro mostro della chitarra. Persino Seal, in “You are my kind”, sembra un po’ messo lì per caso: come se gli strumenti fossero da una parte, e la voce dall’altra. Al punto che vien voglia di dire: taccia tutta questa gente, e suoni Santana da solo. Cosa che avviene in canzoni come “Adouma”, “Victory is won”, “Aye aye aye”, “Foo foo”, il cui allegro richiamo ritmato merita una menzione. Probabilmente non destinate a diventare hit radiofoniche, ma che potrebbero fare la felicità dei fan di Carlos.
(Paola Maraone)