Forse sembrerà banale iniziare una recensione dei Wallflowers ricordando ancora di chi è figlio Jakob Dylan. Fatto sta che 1) ogni paragone con il padre è perso in partenza, per ovvi motivi; 2) Jakob era un felice caso di artista riuscito a ritagliarsi una sua dimensione personale, senza rinnegare le proprie origini ed il proprio sangue, ma anche senza farne una bandiera o, al contrario, un recinto troppo stretto.
il secondo album della sua band, “Bringing down the horse”, era perfetto da questo punto di vista: un disco di rock americano tradizionale, solido e schietto, uno dei migliori degli ultimi anni, nel suo genere. Venne premiato da un buon successo, e Jakob si trovò pure su un palco (i VMA di MTV) a cantare una delle sue canzoni con Bruce Springsteen. Ci vollero 4 anni per un seguito, “Breach”, che andava avanti su quella strada, senza ripeterne i fasti. Altri due anni ed eccoci a questo “Red letter days” a chiederci se quella strada i Wallflowers non l’abbiano persa. Perché questo non è un brutto album, anzi. Ma, dopo averlo sentito più volte, è inevitabile chiedersi dove sia finita quella “luccicanza” che rendeva speciali le canzoni del gruppo.
Prendete i Counting Crows: anche loro arrivano da questo stesso ambito “tradizionale”, anche loro si sono trovati con un disco bomba tra le mani (l’esordio “August and everything after”) in testa alle classifiche. Anche loro hanno sbandato con il disco successivo, ma poi hanno capito che era il caso di rinnovarsi, pur cercando di di mantenere la dritta grazie ad una spolverata alla loro musica. “This desert life” e “Hard candy” sono piccoli gioielli, in questo senso.
Complice anche la mancanza del produttore T Bone Burnette, che produsse il loro capolavoro, “Breach” certamente non ha ripetuto il successo del predecessore, né le vette musicali. Forse ancora peggiore è stata la sbandata della perdita del chitarrista Michael Ward (parzialmente sostituito in studio da Mike McCready dei Pearl Jam). I Wallflowers hanno reagito continuando a scrivere oneste canzoni pop-rock, ma aggiungendo qualche suono elettronico qua è la, come dimostrano i primi secondi del disco, quelli dell’iniziale “When you're on top”. Il punto, però, è che non basta qualche sperimentazione sonora in più o un paio di belle canzoni alla “If you never got sick” per reggere un album intero. E non bastano neanche per mantenere la propria nicchia in un panorama, quello del revival tradizionalista rock, sempre più affollato e agguerrito.
Insomma, “Red letter days” è un altro mezzo passo falso. E non lo diciamo perché il leader della band si chiama Dylan. Lo diciamo perché, cognomi a parte, questa band in passato ha saputo fare grandi cose. Si può anche scegliere di continuare a fare dischi pop-rock piacevoli come questi, ma da chi ha pubblicato dischi come “Bringing down the horse” ci si deve aspettare di più.