Beck - SEA CHANGE - la recensione

Recensione del 23 set 2002 a cura di Gianni Sibilla

Diavolo d’un Beck. Si fa presto a definirlo il musicista più eclettico dell’ultima generazione, a dire che è postmoderno, che la sua musica è un cut-up di diversi elementi.
Si fa presto, perché poi t’imbatti in un disco - stupendo - come questo “Sea change”, e Mr. Hansen ti spiazza ulteriormente. A sorprenderti non è tanto il “concept” dell’album: già in passato Beck aveva scelto atmosfere acustiche, meno poppeggianti e “sperimentali”, ma più orientate al folk. Né ha mai fatto mistero della sua passione per la musica delle radici.
Un disco di matrice acustica, logico seguito di “Mutations”, non stupisce più di tanto, quindi. Quello che ti spiazza è il modo in cui Beck è capace di padroneggiare diversi generi, e sempre da primo della classe. Perché i maligni potrebbero dire che in “Sea change” Beck gioca a fare il Nick Drake della situazione. Direbbero in modo malizioso una verità parziale: sì, Beck usa chitarre acustiche e archi come l’autore di “Pink moon”. Ma bisognerebbe completare questa verità dicendo che Beck sa scrivere canzoni come Dio comanda; bisogna dire che le sa arrangiare: gli archi di questo disco sono davvero fenomenali, completano le canzoni senza essere mai invadenti o prevaricanti sulla struttura complessiva; e concludere che queste canzoni le interpreta ancora meglio, con una voce che matura ad ogni disco.
Brani come “Guess I'm doing fine” o “Already dead” sono gioielli senza tempo, malinconici come solo canzoni ispirate dalla fine di una storia possono essere. In tutto questo, alla fine, Beck è tutt’altro che post-moderno. E’ uno dei musicisti più tradizionalisti in circolazione. Prende elementi classici, li spolvera ma senza alterarne la sostanza. In “Midnite vultures” giocava con il soul, ora è tornato al folk.
Ce ne fossero, di tradizionalisti come Beck, al posto dei tanti falsi (post)modernisti. Uno dei dischi più belli usciti quest'anno, senza ombra di dubbio.

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