Coldplay - A RUSH OF BLOOD TO THE HEAD - la recensione

Recensione del 03 set 2002 a cura di Gianni Sibilla

Esistono due spauracchi per i nuovi gruppi rock: Radiohead e Jeff Buckley. Molti tra i principali beniamini della critica e/o del pubblico emersi negli ultimi anni, soprattutto quelli provenienti dall’Inghilterra, hanno avuto la (s)ventura di essere paragonati a queste due “pietre angolari”. Basta una voce un po’ in falsetto, una chitarra un po’ così, un’atmosfera un po’ più malinconica o ossessiva, che i critici si sbizzarriscono; e il pubblico, spesso, segue.

Tra i tanti gruppi che fanno parte di questo presunto sottogenere, i Coldplay sono tra i pochi ad avere brillato di luce propria, non riflessa. Merito di un singolo azzeccatissmo, “Yellow”, e di un primo album come “Parachutes” che mostrava doti compositive nettamente sopra la media, giustamente incensato da tutti. Questo “A rush of blood to the head” è un classico caso di “ora-vediamo-se-erano-un-bluff-o-se-valgono-davvero-qualcosa”. Aspettative alle stelle, in altre parole, come è successo molte volte nella storia del rock per un gruppo rivelatosi con un esordio folgorante.
Com’è questo “A rush of blood to the head”, quindi? A scanso di equivoci, va detto subito che è una bella conferma. Il gruppo c’è, eccome. Anche se in qualche caso gioca un po’ troppo di sponda: il singolo “In my place” è una gran bella canzone, ma che sa di autocitazione, o quantomeno di rielaborazione di uno schema già sperimentato in passato; cosa che accade anche –seppure su un altro versante- nella ballata pianistica “The scientist”. Convincono assai di più brani come l’iniziale “Politik” o “God put a smile on your face”, nelle quali il gruppo gioca con sapienza su chiaro/scuri, pieni/vuoti e aperture/chiusure melodiche. Bella, nella sua semplicità e linearità, la ballata “Warning sign”, ma notevole anche la più complessa “Daylight”, nonostante sia l’unico brano del disco a pagare un chiaro tributo ai Radiohead, con le sue atmosfere cupe.

Il difetto principale di “A rush of…” è, paradossalmente, la maturità del gruppo. Nel senso che la band è cresciuta, perdendo un po’ di quella semplicità incosciente e di quella irruenza naif che avevano caratterizzato “Parachutes”. Nel frattempo, i Coldplay hanno guadagnato in consapevolezza, ovviamente: nella scelta dei suoni, nella struttura delle canzoni si sente che Martin e compagni sanno dove mettere le mani, sanno dove piazzare l’apertura melodica giusta per agganciare l’ascoltatore.
Insomma: nessuno parli più dei Radiohead, a proposito dei Coldplay, e anche Rockol si scusa di avere tirato in ballo il paragone, anche se siamo giustificati dall’averlo fatto per inquadrare il fenomeno, più che la band. “A rush of…” è una conferma brillante e assai piacevole di una delle migliori band emersa dall’Inghilterra negli ultimi anni.

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