“Arrête ! C'est ici l'empire de la mort”, “Fermati! Qui è l’impero della morte”, così recita l’iscrizione che accoglie chi varca la soglia dell’ossario delle Catacombe di Parigi, un labirinto di quasi trecentochilometri scavato nelle viscere della città, dove milioni di resti umani compongono figure geometriche, archi, pareti di ossa e teschi che si stagliano come un mosaico di silenzio. Qui il tempo sembra sospeso, la luce si fa rarefatta, l’aria resta immobile e densa, il freddo è costante, il respiro si mescola a quello delle ombre, la morte regna tutt’intorno e si fa claustrofobica. In questo ventre di pietra e memoria, luogo in cui l’inquietudine diventa contemplazione e la finitudine prende forma concreta, la musica si carica di una vibrazione che non appartiene più soltanto al suono, ma all’eco di ciò che è già passato e continua a vivere. È proprio in questo scenario che i Queens of the Stone Age hanno deciso di registrare “Alive in the Catacombs”.
L’ultimo progetto di Josh Homme, Troy Van Leeuwen, Michael Shuman, Dean Fertita e Jon Theodore, che non è soltanto un film-concerto o un disco dal vivo, è un rituale che si colloca sul confine sottile tra mortalità e vita. La band ha scelto di realizzarlo in un momento cruciale per Homme, segnato da un problema di salute e una conseguente operazione che hanno imposto al gruppo di interrompere il tour del 2024 dopo le date estive di Roma e Milano (qui il nostro racconto). Diventa così una riflessione sulla precarietà del corpo e la resistenza dello spirito, per cui la musica si insinua nella mortalità e nella vita, mentre il palco si sposta sotto terra, e l’esperienza di ascolto si trasforma in un attraversamento.
Il disco dal vivo, come il film dai cui è tratto, diretto da Thomas Rames e prodotto da Blogothèque, restituisce una dimensione che non è quella consueta del rock elettrico dei Queens of the Stone Age: niente chitarre distorte, niente volumi saturi, ma strumenti acustici, un organo Wurlitzer alimentato da una batteria d’auto, percussioni ottenute da blocchi coperti di carta vetrata e catene, un trio d’archi che accompagna i brani scelti. Il repertorio non indulge sui classici più riconoscibili come “No one knows” o “Little sister”, ma esplora pieghe meno frequentate, con una versione rivisitata di “Paper Machete” dall’ultimo album, “In Times New Roman…” (qui la nostra recensione), che arriva in coda a “Running joke” da “Era Vulgaris” del 2007. La voce di Josh Homme risuona come un’eco prolungato, mentre le corde degli archi restituiscono una dimensione tra il gotico e l’etereo.
“Kalopsia” assume quasi la consistenza di un canto funebre, venendo scandita dal tocco dello xilofono, prima delle corde che incalzano e stridono. “Villains of circumstance” interroga la condizione umana, per lasciare respiro a “Suture up your future” e “I never came”, che fanno risuonare la promessa di una sopravvivenza nell’arte.
Lì dove l’ambiente impone rispetto e sobrietà, Homme abbandona la chitarra e affida il peso del concerto alla voce, strumento cresciuto e mutato nel corso di quasi tre decenni. I corridoi di pietra, con i loro milioni di presenze silenziose, diventano controcanto, scenografia viva che restituisce ai brani un valore diverso, quasi meditativo. In altro luogo sarebbe stato impensabile sentire suonare così i Queens of the Stone Age. Eppure nulla sembra più azzeccato e in linea con la band, di questo film-concerto ed Ep di cinque brani. È una musica che non cerca la rivelazione improvvisa, ma che riafferma con forza ciò che era già implicito nel loro percorso: la capacità di trasformare il rock in esperienza esistenziale, di tenere insieme energia e riflessione, di collocarsi in uno spazio dove l’estetica sonora si fonde con la consapevolezza della finitudine.
“Alive in the Catacombs” si completa con “Alive in Paris and Before”, documentario che intreccia la dimensione performativa con la vicenda personale di Homme, e che racconta come questo progetto sia stato in gestazione per vent’anni, ma sia diventato possibile solo quando la fragilità fisica del leader ha reso urgente trasformare la musica in testimonianza.
Fortunatamente “Alive in the Catacombs” non rimarrà un caso isolato e destinato esclusivamente alle catacombe di Parigi, ma si espande in un tour che il 18 ottobre porterà l’esperienza anche su un palco italiano, in un unico appuntamento al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano. In superficie torneranno quindi le atmosfere del sottosuolo parigino, con la promessa di confermate che il rock dei Queens of the Stone Age non è mai soltanto intrattenimento, ma un viaggio che attraversa il corpo e lo spirito, la mortalità e la vita. “Quocumque ingrederis sequitur mors corporis umbra”, “Ovunque si entri, la morte segue l’ombra del corpo”, così recita una delle iscrizioni incise nelle Catacombe di Parigi. Eppure la musica continua a testimoniare la persistenza della vita.