I Goose sono e rimangono uno dei casi più interessanti del rock americano. Sono trentenni più legati generazionalmente a band come i Vampire Weekend e i National, ma sono figli spirituali dei Grateful Dead e dei Phish, e di quel mondo delle jam band che ha una serie di codici non scritti ma molto precisi – e un pubblico decisamente più adulto e molto esigente. Codici che i Goose in parte rispettano – le lunghe jam, le scalette imprevedibili – e in parte no: un’attenzione a dinamiche digitali e di comunicazione molto contemporanee. Indie o Jam? O tutti e due?
“Everything Must Go”
Tutto questo emerge chiaramente in “Everything Must Go”. Che è, innanzitutto, un disco in studio – cosa che per una jam band può suonare quasi come un ossimoro. Perché il cuore del genere è il live: l’imprevisto, la serata irripetibile, la scaletta che cambia ogni sera e canzone che non è mai uguale, si espande, devia e ritorna a casa dopo venti minuti.
Gli album delle jam band hanno la fama di essere la brutta copia di quello che succede sul palco. Ma i Goose, cresciuti anche in un altro mondo, hanno l’ambizione di non limitarsi a registrare semplici versioni da studio di brani già rodati o destinati a essere stravolti in tour. Vogliono fare un album con i limiti, ma anche le potenzialità, della forma canzone.
“Red Bird” ne è l’esempio perfetto: dal vivo è da tempo una delle canzoni migliori del repertorio, si espande in improvvisazioni che arrivano quasi alla mezz’ora. Nella versione di studio è pulita, stratificata, conserva solo l’inizio della parte più psichedelica, dandosi una forma più compatta – comunque bella. Non c’è il crescendo che dal vivo durerebbe quanto una pausa pranzo, ma qui si ferma a 6 minuti. Guadagnando in sintesi, trovando un equilbrio delicato. Ma la forma canzone viene continuamente sfidata: diversi brani hanno brevi code strumentali che fanno intuire cosa può succedere in una jam dal vivo, oppure fondono l’uno nell’altro, diventando quasi delle suite, come l’iniziale title-track che si fonde in “Give It Time”.
Una band amata e divisiva
Questo approccio non ha convinto tutti: il New York Times ha dedicato un lungo articolo alla band raccontando bene le tensioni attorno al disco, preceduto da un paio di defezioni dalla formazione che hanno fatto discutere e diviso i fan.
L’idea della band è di raccontarsi attraverso una presenza continua, estremizzando digitalmente la logica della condivisione della musica che è iniziata con i Grateful Dead. Ogni concerto diventa un album il giorno dopo, ma non solo: concerti tematici (recentemente hanno dedicato una show alle canzoni di "Stranger things") e altri dove le canzoni sono estratte a sorte, cover inusuali per una band i questo mondo, dai National agli Echo and The Bunnymen, dai Kylie Minogue a David Gray. il tutto con concerti sempre visibili in diretta streaming.
Un approccio che ha portato alle critiche da parte del pubblico più tradizionalista e intransigente, che li accusa di essere troppo pianificatori, un po' paraculi se vogliamo. Una critica riassunta dall’ex percussionista Jeffrey Arevalo, espulso per “comportamenti inappropriati incompatibili con i valori della band”, che al NY Times si è vendicato dichiarando che i Goose “pensano più al business che alla creatività musicale”. La solita accusa di non essere abbastanza “autentici” che torna sempre nel mondo rock. Come se avere successo, espandere il proprio pubblico fosse una colpa e non un obiettivo, “Sembra che sia successo tutto da un giorno all’altro, ma è frutto di anni di lavoro”, ha risposto Rick Mitarotonda, chitarrista, autore e frontman.
Indie, jam
I Goose - e l’estetica del suonare libero, ma registrare con cura - non sono un caso isolato: l’incrocio tra il mondo indie e quello jam è iniziato una decina di anni fa con “Day of the Dead”, mastodontico tributo ai Grateful Dead curato da Aaron e Bryce Dessner dei National, con dentro Bon Iver, War on Drugs, Kurt Vile, Courtney Barnett.
“Everything Must Go” si muove su questa linea sottile: i Goose, rispetto al live, aggiungono suoni alle canzoni – soprattutto fiati – per dare profondità musicale. Ma a volte finiscono per allungare troppo i pezzi, e troppo: l’album, con 14 canzoni, dura ben 90 minuti.
Non è un disco perfetto, e in diversi momenti l’equilibrio si spezza, con momenti che suonano più come esercizi di stile. Ma i Goose dimostrano che si può ancora osare, anche in uno dei generi più intransigenti della musica rock.
Alla fine, è una scommessa in larga parte riuscita: una band che nasce per il live sceglie di affrontare a modo suo il linguaggio dell’album. Una scelta che nella maggior parte dei momenti di “Everything Must Go”, funziona.