Squid, "Cowards": la colonna sonora di un mondo che si sgretola

Quasi due anni dopo “O Monolith”, la band torna con un album che scava nelle viscere dell’umanità

Recensione del 05 mar 2025 a cura di Elena Palmieri

Voto 7.5/10

“We are friends / There's murder sometimes / But he's a real nice guy", "Siamo amici / A volte ci scappa un omicidio / Ma è davvero un bravo ragazzo". Da un lato c’è Frank, il protagonista di "Building 650", il cui senso della morale è piegato da una logica spietata. Dall’altro c’è l’io narrante di "Crispy Skin", che contempla il desiderio di uccidere e divorare, prima su un tappeto sonoro inquietante fatto di chitarre contorte e synth corrosi, e poi su una sorprendente melodia di pianoforte: "We love their crispy skin / 'Cause it's something that we crave", “Amiamo la loro pelle croccante / Perché è qualcosa che bramiamo”. Fin dalle prime battute, "Cowards" si manifesta come un viaggio disturbante nella psiche umana, tra colpevoli senza pentimento e carnefici che si mimetizzano tra la gente comune. Quasi due anni dopo “O Monolith”, gli Squid tornano così con un album feroce e alienante, un lavoro per cui la stessa band originaria di Brighton prende come riferimento un disco inaspettato: "Nebraska" di Bruce Springsteen, descritto dal frontman Ollie Judge come "un progetto perlopiù scritto su persone malvagie, ma punteggiato da fugaci momenti di redenzione".

Un mondo che si sgretola

Attraverso le sue nove tracce, per quasi 45 minuti di musica, "Cowards" sussurra quindi storie di crudeltà con una freddezza quasi documentaristica. La produzione è questa volta affidata a Marta Salogni, Grace Banks, e immancabilmente a Dan Carey. Il tutto avviene in un paesaggio sonoro che si è fatto più espanso e inquieto: il nervosismo delle origini degli Squid si allunga in divagazioni krautrock, melodie spettrali e improvvise esplosioni sonore. Come molte altre recenti formazioni, spesso etichettate forzatament sotto il termine “post-punk revival”, anche il quintetto formato da Ollie Judge (voce, batteria), Louis Borlase (chitarra, voci), Anton Pearson (chitarra, voci), Laurie Nankivell (basso) and Arthur Leadbetter (tastiere), continua a mutare in modo irrequieto, andando ben oltre i tratti distintivi del loro suono d’esordio. Mentre gli Squid hanno ripetuto come "Cowards" possa rappresentare un tentativo nel focalizzarsi sulla scrittura delle canzoni, evitando strati complessi come nel precedente lavoro, il nuovo album appare all'ascolto più ampio e indefinito. Gli Squid non si contorgono più, ma si dispiegano.

Dove "Bright Green Field" raccontava una Londra distopica e fantascientifica nell’era Brexit, e "O Monolith" cercava risposte al presente nelle mitologie dell’Inghilterra rurale, "Cowards" si allarga a un orizzonte globale. Tokyo, New York, l’Europa dell’Est: i luoghi si fanno sfocati, mentre l’album diventa una raccolta di fiabe nere in cui la violenza è un elemento ineluttabile della condizione umana.

"And how the body bounced on horsеback / And where they workеd / And how they slept / And who they fucked / And what they ate / And how they killed / We wanna know", "E come il corpo rimbalzava a cavallo / E dove lavoravano / E come dormivano / E con chi scopavano / E cosa mangiavano / E come uccidevano / Vogliamo saperlo": "Blood on the Boulders" evoca il potere magnetico, seppur perverso, dei leader di culto, con un climax ipnotico che sembra risucchiare l’ascoltatore e una macabra fascinazione. In "Fieldworks II", i synth si accartocciano su se stessi mentre i protagonisti lottano con un’identità liquida e precaria. E quando in "Showtime!" la tensione si scioglie in un’esplosione sonora che richiama gli Squid degli inizi, tra convulsioni che ricordano "Pamphlets", il senso di smarrimento diventa totale. La band abbandona così il proprio ribollire di tensione, e dà vita a una colonna sonora sfilacciata e inquieta di un mondo che si sgretola.  

Bellezza nell'incertezza

Ma "Cowards" non è solo un affresco di depravazione: è un album che trova bellezza anche nell’incertezza. Se le trame si sono fatte più libere e le strutture meno prevedibili, la scrittura è più affinata che mai. Gli Squid giocano con fiati minacciosi, archi che strisciano e suoni che sembrano provenire da epoche diverse: c’è il barocco inquietante del clavicembalo in "Fieldworks I", il battito di "Cro-Magnon Man", il requiem finale della title track. "Well Met (Fingers Through The Fence)" chiude l’album con un’atmosfera sospesa, dove ogni suono sembra sul punto di dissolversi nel nulla. Gli Squid, nel raccontare il lato più oscuro dell’umanità, hanno firmato uno dei loro lavori più ambiziosi e sfuggenti, un disco che non si limita a descrivere il caos, ma ci invita a viverlo dall’interno. La stessa band, come fa "Cowards", rifiuta etichette di genere, soprattutto quelle che le sono state affibiate, trovando così il suo punto di forza. E si distingue di netto da altre formazioni della scena post-punk britannica, quella legata al Windmill di Brixton, alla Speedy Wunderground o associati al produttore Dan Carey, quindi da gruppo come i defunti Black Midi o i Black Country, New Road.

Tracklist

01. Crispy Skin (06:19)
02. Building 650 (03:51)
03. Blood on the Boulders (05:46)
04. Fieldworks I (02:23)
05. Fieldworks II (03:19)
06. Cro-Magnon Man (04:07)
07. Cowards (05:51)
08. Showtime! (05:08)
09. Well Met (Fingers Through The Fence) (08:15)

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