C’è stato un periodo, 20-25 anni fa, in cui si era alla ricerca dei “nuovi Radiohead”: quella dei “nuovi qualcosa” è stata spesso un’ossessione della stampa e della discografia, che usava l’etichetta come marketing.
In quel giro finirono anche i Wilco. Meno di altri, va detto, perché non erano proprio nuovi, visto che arrivarono agli anni Zero con già una storia lunga e complessa. Ma qualcosa in comune con la band inglese ce l’avevano eccome: l’insofferenza verso gli schemi dell’industria, che li aveva portati a pubblicare in streaming "Yankee Hotel Foxtrot" nel 2001 dopo avere rotto con una major. E la voglia di giocare e destrutturare la forma-canzone, come fecero in quel capolavoro (ma anche già negli album precedenti, più radicati nel cosiddetto alt-country).
Nel 2004, attesissimo dopo "Yankee hotel foxtrot", arrivò “A Ghost Is Born”. Ora viene ripubblicato in versione mega-espansa da 9 CD (!). Come scrivemmo al tempo, recensendolo e riassumendo le reazioni all’album precedente:
Ci si chiedeva se Jeff Tweedy potesse davvero diventare un improbabile anello di congiunzione tra Gram Parsons e Thom Yorke. Lui, il tormentato leader del gruppo di Chicago, sembra effettivamente possedere qualcosa dell’uno e dell’altro: un fragile e postmoderno cowboy cosmico con tratti somatici country & western, malinconie honky-tonk nell’animo e cicatrici rock & roll sulla pelle, che tradisce però un’inquietudine, un senso di svagata inadeguatezza e una curiosità per il nuovo assolutamente moderni.
L’album, continuava il collega Alfredo Marziano, era segnato da un "atteggiamento in apparenza più classico e tradizionale rispetto allo sperimentalismo spinto del suo predecessore. Sono opere mutanti, sfuggenti, alchimie e sintesi stilistiche a volte indecifrabili nella loro vulnerabile intensità poetica".
Anche ascoltato oggi è un disco che contiene canzoni-capolavoro: l’iniziale “At Least That’s What You Said”, che inizia dolce e intima ma si chiude con un’accelerazione chitarristica quasi dissonante, da brividi. O “Spiders (Kidsmoke)”, dieci minuti di electro-rock con altre accelerazioni da headbanging ai concerti. Due esempi di destrutturazione della canzone a cui si accompagnano numeri più classici, ma non meno intensi, come “Company in My Back”, “Muzzle of Bees” e “Hummingbird”.
Questa nuova edizione espansa racconta la storia di un disco che ebbe una storia molto più travagliata di quello che il risultato finale lascia intravedere: due anni di lavoro, iniziati ancora mentre “Yankee Hotel Foxtrot” stava trovando una sua casa discografica (la Nonesuch, del gruppo Warner da cui erano scappati). Tweedy che lotta con i suoi demoni di dipendenze e salute mentale – il disco che viene rimandato per permettere al frontman di andare in rehab. La band che perde pezzi appena terminato il disco, ma trova una nuova forma subito dopo con l’ingresso del multistrumentista Mikael Jorgensen e soprattutto del chitarrista Nels Cline: gli effetti si sentono già nel tour – documentato dal live “Kicking Television” – ma soprattutto nell’altro classico del periodo, “Sky Blue Sky”, che uscirà tre anni dopo. I Wilco sono rimasti stabili in quella formazione fino ad oggi.
La versione espansa completa dura ben nove ore (!): due CD di demo tra Chicago e New York, un album live e i cosiddetti “Fundamentals”, sette jam in studio di mezz’ora in cui la band cercava di dare forma alle proprie idee. Il tutto condito da un libretto con la storia dettagliata dell’album (e pure delle vicende di Tweedy).
In tutto questo ben di Dio c’è da perdersi, per i fan, a partire dalle versioni embrionali acustiche di “Improbable Germany”, che diventerà “Impossible Germany” nel disco successivo. Una canzone capolavoro grazie all’apporto di Nels Cline, che la trasforma in una cavalcata chitarristica alla Television. Per le persone “normali” basta la versione sulle piattaforme, che si limita a una ventina di demo, sufficienti per capire il work in progress delle canzoni.
“A Ghost Is Born” non sarà il capolavoro della band, ma rimane un gran disco di un gruppo che ha mostrato come la cosiddetta “innovazione nella tradizione” non fosse solo una frase stereotipata, ma un modo di intendere la musica in maniera reale e producendo grandi canzoni, mai banali. Questa ristampa gli rende giustizia.