Un giorno bisognerebbe scrivere un saggio sulle reazioni dei musicisti “classici”, quelli cresciuti in epoca analogica, alle tecnologie digitali. Probabilmente si tornerebbe agli “apocalittici” e agli “integrati” che Eco aveva descritto decenni fa parlando delle reazioni all’avvento della TV: corsi e ricorsi storici. C’è chi continua a raccontarci che il digitale, i social e le piattaforme stanno ammazzando la musica e c’è chi pensa che ogni nuovo strumento sia una entusiasmante possibilità. in mezzo molte sfumature, e anche molte contraddizioni.
Sheryl Crow, per esempio: qualche tempo fa aveva dichiarato che non avrebbe fatto più album perché non avevano più senso per come si consuma la musica oggi. Ma eccola qua di nuovo: “Evolution” prende il titolo da una canzone apocalittica sull’applicazione dell’intelligenza artificiale alla musica: “Turned on the radio and there it was/A song that sounded like something I wrote/The voice and melody were hauntingly/ So familiar that I thought it was a joke/Is it beyond intelligence? As if the soul need not exist”: ma davvero ha sentito una sua canzone fatta con l’A.I. alla radio?).
Però è anche quella che fa bei video su Instagram e TikTok, non balletti cringe ma versioni acustiche delle sue canzoni, sfruttando lo spazio a modo suo.
Sorpresa: gli album sono tutt’altro che morti. Certo, non hanno più il ritorno economico a cui questa generazione di musicisti/e era abituata e questo è il problema che spinge qualche artista a dichiararli inutili. Ma se vuoi fare un discorso più articolato, se vuoi raccontare chi sei musicalmente, da lì si deve passare: vale anche per i più giovani, che in termini di comunicazione e racconto sugli album investono eccome.
“Evolution” è una buona raccolta di canzoni di Sheryl Crow, un riassunto in nove brani della sua carriera. Voce splendida, scrittura classica nel miglior senso della parola: le chitarre distorte di “Alarm clock”, “Do it again” che ricorda di “Everyday is a winding road”, un po’ nel ritmo e anche nelle parole (“Everyday I get up and do it again”), il crescendo di “Evolution”, il cantautorato che deve molto al country, e così via.
Nel disco c’è anche una cover di “Diggin in the the dirt” di e con Peter Gabriel. Arrangiata come l’originale, diversa dal suono del disco, e forse per questo è inclusa solo nella versione deluxe: è una delle cose più interessanti del disco, così come è interessante l’accostamento e la collaborazione con un artista che, all’opposto, è un “integrato”, uno che ha sempre visto la tecnologia come una risorsa e non come una minaccia (tanto da pubblicare l’ultimo album a singoli e con versioni diverse per ogni piattaforma).
Il problema principale di “Evolution” è che dichiaratamente, cerca poco di suonare come un album. Una raccolta di canzoni, come se avesse un po’ rinunciato a dare un’unità o un’idea comune a questi brani. Sheryl Crow rimane una delle voci più belle del cantautorato americano. Ma, per dirla con Van Morrison - apocalittico all’ennesima potenza - questo è un album che racconta “A period of transition".