A 60 anni dalla loro formazione, nonostante incarnino tuttora il meglio del live da stadio e nessuno osi metterne in dubbio il titolo di più grande rock and roll band di ogni tempo, i Rolling Stones sono per forza più materia da leggenda che da storia.
Ma è un fatto storico che, nati per suonare una musica esotica nell’Inghilterra dei primi anni Sessanta – il blues dei neri – appena diventati famosi viaggiarono alla volta di Chicago per impararlo meglio e iniziarono una storia d’amore senza fine con l’America. Del blues, scevri da qualsiasi pregiudizio extra musicale che aveva ghettizzato il genere nella sua madre patria, colsero ogni influenza e contaminazione restituendo all’America e agli Americani, tra il 1968 e il 1972, una marca nuova di rock and roll. Bello, sporco ma di classe, semplice ma geniale, iconico e inimitabile. Conteneva, quel loro rock, molto country: amavano Johnny Cash, Hank Williams, Merle Haggard, Willie Nelson e Gram Parson ed erano dei naturali dentro a uno stile che con Londra non aveva molto a che spartire ma le cui radici bianche affondavano anche nel folk della terra d’Albione e nella musica celtica. Negli Stati Uniti quelle radici si intrecciavano con altre che sprofondavano intorno al Mississippi. E fu così che il rock degli Stones, britannico sul passaporto, dopo avere mutato per sempre la pelle di quello americano, vi incorporò il country come un elemento di base. Senza farla troppo lunga.
Gli Stones e la nuova generazione del country
Nelle nuove generazioni del country americano – quella contemporanea annovera artisti e band che gareggiano senza problemi con gli Stones nel riempire gli stadi –Keith e Mick scorrono nel sangue e sono tatuati nell’attitudine. “Stoned Cold Country”, alla fine, ha senso proprio per questa ragione. 14 artisti in un tributo che, a 60 anni dalla comparsa dei Rolling Stones sulla scena, provano a restituire alla band l’amore che essa ha riversato sul loro genere. Anticipato da due singoli - “You Can’t Always Get What You Want” di Lainey Wilson e da “Sympathy for the Devil” di Elvie Shane, l’album è corroborato da un interessante documentario che riprende le sessioni di registrazione.
Il progetto è farina del sacco di Hartwig Masuch, CEO di BMG (che è anche l’editore di Jagger e Richards) e di Robert Deaton, produttore dell’album: prima di procedere alla realizzazione, hanno fatto trapelare, i due hanno ricevuto la benedizione dei Glimmer Twins e poi sono passati all’azione.
Non è mai semplice produrre cover significative e, forse ancora più che in altri casi, qui gli originali equivalgono a scalate impervie per chi li affronta con l’obiettivo di rendere omaggio ma di aggiungere al contempo valore e originalità. E poi c’è la questione dei pubblici diversi (quello degli Stones e quello delle star del country odierno) e il tema della netta distanza generazionale. Però è probabile che alla fine, come è emerso da diverse dichiarazioni dei musicisti in studio a Nashville, dove “Stoned Cold Country” è stato inciso, la soluzione fosse elementare: considerare gli Stones e la loro musica semplicemente senza tempo, una specie di cosa immanente che fa già parte di sé. Così facendo, anche il dilemma del produttore di appaiare l’artista giusto alla canzone giusta deve essersi fatto meno complesso. Con qualche risultato migliore di altri, si intende.
Le canzoni
Quello che ti aspetti è che tra 14 canzoni con cui il country celebra i Rolling Stones, due pezzi come “Wild horses” e “Dead flowers” debbano avere un posto in prima fila. Lo hanno avuto perché sono quanto di più affine, ma a Little Big Town e a Maren Morris si possono estendere soprattutto i complimenti per il coraggio.
Diverso è il caso di “Miss you”, esattamente quello che qui non ti aspetteresti. E’ vero che anni fa una schiera di grandi artisti country si cimentò in un greatest hits di Lionel Richie (“Tuskegee”), ma la scelta di includere nel tributo il pezzo più disco della band merita di per sé un 9 in pagella. L’esecuzione è dell’ottimo Jimmie Allen, qui non necessariamente in cima alla lista delle associazioni di idee più naturali, ma ha un grande peso il tocco geniale dell’armonica di Mickey Raphael, un grandissimo di questo strumento, “compare” di una vita di Willie Nelson, al quale è toccato l’onere di sostituire l’atmosfera funky e strobo con un suono country verace e antico.
E, a proposito di azzardi andati a buon fine, eccone un altro paio.
La cover di “Gimme shelter” di Eric Church, che ha spogliato l’originale di quella meravigliosa atmosfera sinistra e lo ha rimontato in una versione nervosa, energetica, sincopata, dove il country fa quasi da sfondo a uno stile quasi punk, è molto ben riuscita; qui un plauso va a Joanna Cotten, bravissima e quasi invasata nel far rivivere l’assolo vocale che fu di Merry Clayton nel 1969 – e, come lei, capace di rubare la scena.
E poi c’è la già citata “Sympathy for the Devil” di Elvie Shane, che confina con il capolavoro. Sia perché parliamo di un inno del rock che, nel suo profondo, è in realtà musica samba che qui viene smerigliata fino a suonare country; sia perché compete, in perfidia e cattiveria, con l’originale; sia, infine, perché è opera di un artista così mainstream nel suo genere che non crederesti che possa mettere in ombra la cover del pezzo più celebre, quella dei Guns N’Roses.
La bellezza più ortodossa, però, risiede altrove: in “Stoned Cold Country” tre brani spiccano per ragioni diverse.
Il primo è “Can’t you hear me knocking”, finito in mano a Marcus King, fenomeno della chitarra sudista (è originario della South Carolina) che è talmente bravo tecnicamente, appassionato nell’esecuzione e immedesimato nella canzone da riuscire a regalare una jam session nello stile proprio degli Stones – sporco ed elegante come da altre parti non si fa.
Il secondo è “Angie”. Questa è la tipica canzone che un fan degli Stones finge che non esista, relegandola a metà tra l’imbarazzo e il guilty pleasure, denigrandola a bieco successo pop buono solo per chi la band in realtà non la conosce. Ma qui abbiamo Steve Earle, pilastro dell’Americana, che impartisce una lezione di canto e di personalità (mi fa venire in mente, in un contesto diverso, il trattamento che Johnny Cash riservò a “Personal Jesus” dei Depeche Mode).
Il terzo è “Shine a light”, che eccelle semplicemente perché sfoggia Chuck Leavell, colui il quale ha raccolto dal vivo con i Rolling Stones la pesante eredità di Ian Stewart alle tastiere. A proposito di masterclass…
“Stoned Cold Country” è registrato dal vivo, è un divertimento e, come all’epoca “The Blues Brothers” con il blues, si incarica a modo suo di esportare il country fuori dall’America e dal suo tempo, per servirlo alle nuove generazioni. Solo così, oggi, Nashville è un po’ più vicina all’Europa.
Tracklist
1. “(I Can’t Get No) Satisfaction” – Ashley McBryde
2. “Honky Tonk Women” – Brooks & Dunn
3. “Dead Flowers” – Maren Morris
4. “It’s Only Rock ‘N’ Roll (But I Like It)” – Brothers Osborne & The War And Treaty
5. “Miss You” – Jimmie Allen
6. “Tumbling Dice” – Elle King
7. “Can’t You Hear Me Knocking” – Marcus King
8. “Wild Horses” – Little Big Town
9. “Paint It Black” – Zac Brown Band
10. “You Can’t Always Get What You Want” – Lainey Wilson
11. “Sympathy for the Devil” – Elvie Shane
12. “Angie” – Steve Earle
13. “Gimme Shelter” – Eric Church
14. “Shine A Light” – Koe Wetzel