Marilyn Manson a Bergamo tra ombre, intensità, rito e velocità

Il cantante e la sua band di scena alla ChorusLife Arena: il racconto

La sera del 25 novembre 2025 segna un ritorno che continua a dividere, che separa chi sceglie la presenza fisica e chi invece esercita una forma di assenza consapevole, alimentata da quattro anni di accuse, assoluzioni, proteste e da un dibattito che continua a spingersi oltre la musica. L’annullamento del concerto dello scorso 29 ottobre a Brighton, risultato di una campagna online e di un appello formale contro la presenza di uomini accusati di abusi nei luoghi di spettacolo, rimane un’ombra su questo tour. Ma c'è anche chi, come in Messico, decide di difendere non solo la "libertà di espressione", ma anche lanciare un appello di "giustizia culturale". Quella di Bergamo è la seconda data italiana dopo Milano dello scorso febbraio e si inserisce in una fase in cui Marilyn Manson, dopo che a gennaio sono cadute le accuse di violenza domestica, torna a esporre la propria figura, ancora controversa, al giudizio del pubblico. La struttura che ospita il concerto, la ChorusLife Arena inaugurata un anno fa e ancora in fase di assestamento, accoglie il pubblico con una temperatura gelida che rende superfluo togliere i cappotti e con un’acustica che non sempre restituisce in modo uniforme ciò che accade sul palco.

Alle 21 precise, come da programma e dopo l'apertura dei Dead Posey, la sala si spegne mentre “Sacrifice of the mass” scorre in registrazione. Il palco si illumina di rosso, nascosto da un telo nero, e quando “Nod if you understand” esplode con i colpi netti della batteria, la scena si apre. Marilyn Manson è già al centro della scena: indossa un completo nero attillato, segnato da un harness che aggiunge un tocco sadomaso, mentre il volto pallido è inciso da un rossetto scurissimo che si curva in un ghigno feroce. Gli occhi, affondati nell’eyeliner, completano un’immagine che è insieme maschera e segno distintivo. “It’s good to be back, Bergamo!”, urla al pubblico, disposto tra gli spalti e il parterre, il cantante statunitense. I getti di fumo iniziano a salire verso l’alto e le luci disegnano croci geometriche che si trasformano a ogni brano. Accanto al performer, 56 anni, all'anagrafe Brian Warner, ci sono Tyler Bates alla chitarra, Gil Sharone alla batteria, Reba Meyers alla seconda chitarra — la prima donna nella storia della band, accolta online tra sostegno e critiche — e Piggy D., al secolo Matthew Montgomery, al basso. La voce di Manson mantiene la sua impronta, il suo timbro che non perde spessore, ma nella resa della venue alcune sfumature emergono in modo discontinuo: in “Sacrilegious”, in particolare, l'estensione sembra cedere a piccole imprecisioni che potrebbero derivare più da limiti tecnici dell’acustica che da cali interpretativi.

La scaletta alterna classici e nuovi brani dall'ultimo album, "One assassination under God - Chapter 1", in un alternarsi e in un intreccio tra “Disposable teens”, “Angel with the scabbed wings”, “Great big white world”, “One assassination under God”, “This is the new shit”. Il verso principale di “Long hard road out of hell”, "I wanna live, I wanna love”, si allunga come un mantra, che accompagna l’uscita momentanea del cantante per lasciare spazio a un interludio strumentale. Quando Manson rientra per “Sacrilegious”, una giacca nera ricoperta di strass apre una nuova sezione del concerto. Poco dopo arriva il siparietto consueto — “I’m Marilyn Manson and I love drugs” — che introduce “The dope show”, mentre lo scaldacuore peloso turchese sostituisce l’abito precedente. “As sick as the secrets within” tiene lo sguardo puntato su un presente che sembra chiedere risposte a ogni gesto scenico. E poi la sua famosa cover di “Sweet dreams (Are made of this)”, che nasce da una torcia puntata sul volto del cantante, come un interrogatorio rivolto a sé e agli spettatori, prima che l’apertura del brano trasformi l’Arena in un karaoke collettivo, in pieno stile Marilyn Manson.

Con l’insegna luminosa rossa in stile teatro-cabaret che cala dall’alto, il finale prende forma a partire da “mOBSCENE”, prima di un altro cavallo di battaglia. Arriva quindi “The beautiful people”, immancabile in un concerto di Manson, a precedere i due bis della serata. In “Tourniquet” l'artista entra in scena con microfono ad archetto e sulle iconiche stampelle-trampoli metalliche, che fin dalla loro apparizione oltre vent'anni fa rimangono un simbolo dell'estetica circense-grottesca di Manson. Dopo un'ultima, breve pausa, “Coma White” porta una nevicata fittizia che cade su un’Arena già gelida di suo, al punto da sembrare parte della scenografia. L’uscita arriva fin troppo in fretta alle 22.20, dopo un’ora e venti minuti che non cercano spiegazioni ma producono un racconto in cui gesto, voce e percezione si scontrano con una venue ancora da perfezionare, con una figura che continua a generare reazioni opposte e con un pubblico che sceglie di partecipare comunque, in presenza, al ritorno di un artista che attraversa il proprio passato mentre mette alla prova il proprio presente.

Ecco la scaletta:
Sacrifice of the Mass (registrata)
Nod If You Understand
Disposable Teens
Angel With the Scabbed Wings
Great Big White World
One Assassination Under God
This Is the New Shit
Long Hard Road Out of Hell
[Interlude] (registrata)
Sacrilegious
The Dope Show
As Sick as the Secrets Within
Sweet Dreams (Are Made of This) - Cover di Eurythmics
mOBSCENE
The Beautiful People

BIS 1
Tourniquet

BIS 2
Coma White

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