La parabola di Tom Odell, l’eterna giovane promessa del nuovo cantautorato britannico, si può riassumere con l’elenco dei titoli dei sette dischi che ha inciso fino ad oggi. Nel 2013 l’esordio con “Long way down”, letteralmente “lunga discesa”, quella che il percorso dell’artista di Chichester, città di 29 mila abitanti del West Sussex, tra Portsmouth e Brighton, nella zona sud del Regno Unito, sembrava aver intrapreso dopo una lunga gavetta. Le “Wrong crowd” (“cattive compagnie”) nel 2016 sembravano averlo portato fuori strada, ma nel 2018 ritrovò Odell sembrò aver ritrovato la “Jubilee Road”. Non era così: in “Mosters”, nel 2021, il cantautore raccontò i suoi mostri, prima che “Another love” - 3,1 miliardi (!!!!) di ascolti su Spotify a livello mondiale - diventasse virale sui social riscattando una carriera che rischiava ingiustamente di arenarsi. Nel 2022, dunque, la rinascita con “Best day of my life”, seguito nel 2024 da “Black friday”. Ora a raccontare le nuove maturità e consapevolezze di Tom Odell, che a 34 anni sembra aver trovato una sua dimensione e una sua collocazione nella scena cantautorale rock d’oltremanica, ci pensa “A wonderful life”: esce il 5 settembre e sarà seguito da un tour nelle arene europee, dove Odell si è recentemente esibito anche come “opening act” di Billie EIlish. Passerà a Milano il 27 novembre, all’Unipol Forum. «Scrivendo queste dieci canzoni ho recuperato miti della mia adolescenza come Jeff Buckley, Radiohead, Chris Cornell e Soundgarden», dice.
Che tipo di fascino provi per artisti con vite turbolente come Chris Cornell e Jeff Buckley?
«Ho sempre adorato i loro dischi. Da ragazzino li consumavo. Immagino che molto abbia fatto la nostalgia che provo per quella musica. E poi volevo che questo suonasse come il disco di una band, non di un cantautore. Anche in questo mi sono rifatto molto a quell’immaginario sonoro. Ha avuto una grande influenza il mio batterista, Toby Couling. Gli ho lasciato moltissimo spazio e c’è tanto della sua identità in questo disco».
Sbaglio o “A wonderful life” è un disco più solare e luminoso rispetto a “Black friday”?
«Lo è. È più positivo, ma anche propositivo. A partire dal titolo».
Hai fatto definitivamente pace con i fantasmi di cui parlasti in passato, tra depressione e quant’altro?
«Non saprei. Nella vita di un artista ci sono giorni buoni e altri più difficili. Questo disco è un riflesso di quella che è la mia vita oggi. Mi sento più positivo che in passato e provo, per questo, un senso di gratitudine. Non mi sto fermando da mesi. Suono in tutto il mondo insieme alla mia band. È bello vedere sempre così tanta gente sotto ai palchi. Ho un repertorio di cui sono molto orgoglioso, composto da canzoni che adoro cantare ogni sera. Il fatto che tante persone che vengono ai concerti si immedesimino in quelle canzoni significa molto per me. Vuol dire che la mia è diventata una scrittura universale. Con questo disco non mi autocelebro, ma celebro la fragilità della vita: siamo tutti sulla stessa barca, a lottare e a soffrire per una varietà di cose».
Eppure la salute mentale continua ad essere un tema anche in questo disco. In “We can just go home now” descrivi una crisi prima di un concerto, con la voce che se ne va e l’umore che diventa nero. Quando l’hai scritta?
«L’anno scorso mentre ero in tour ho attraversato un periodo in cui non riuscivo a dormire. La situazione è peggiorata di giorno in giorno, fino a quando non è andata fuori controllo una sera a Vienna, in Austria. Avevo la sensazione di non riuscire a riposare la mente. Quando non dormi per molto tempo e magari per aiutarti prendi anche dei sonniferi, la situazione può diventare strana molto velocemente. Quella canzone è stata ispirata da quella esperienza: tutto quello che desideravo in quel momento era di tornare a casa a riposare».
Hai imparato a gestire il lato oscuro del successo?
«Faccio tutto quello che posso, per combatterlo. Meditare, ad esempio. Ho imparato a capirci davvero qualcosa di questo lavoro solo in questi ultimi mesi».
In “Why do I always want the things I can’t have” c’è un po’ di frustrazione?
«Non sono del tutto sicuro di cosa abbia ispirato quella canzone. Si parla del fatto di trovare insoddisfacente la vita in una grande città. Nel testo c’è un verso che dice: “Perché nessuno si rende conto che siamo alle porte del paradiso?”. Mi piace l’idea che ci sia sempre qualcosa appena oltre la nostra portata, ma che non potremo mai ottenere o raggiungere. C’è qualcosa, nell’esperienza umana, che mi risuona in questo. Non possiamo mai arrivare davvero dove desideriamo andare. Spesso quando scrivo canzoni e faccio dischi non voglio trovare le risposte che cerco».
Quanto ti ha colto di sorpresa l’exploit di “Another love”?
«Mi ha colto completamente di sorpresa. Non avrei mai potuto immaginare che quella canzone sarebbe diventata così grande. All’epoca ero un ventenne con il cuore spezzato. Oggi non sono più quella persona e non ho alcun desiderio di riscrivere un’altra “Another love”, di ripetere quel lavoro».
Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con la tua musica oggi?
«Non so se ci sia un messaggio da trasmettere. Non credo che la musica sia una campagna politica. Ho fatto un disco. Ora spero che raggiunga le persone. E che le emozioni. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’attualità fa “desensibilizzare” le persone. Io voglio fare il contrario. Voglio invitare le persone a provare di più, che si tratti di rabbia, tristezza, malinconia, gioia o euforia. L amia musica è un invito a provare emozioni. Quando ero un bambino, non capivo come mi sentivo. E non riuscivo di conseguenza a comunicare le mie emozioni. Poi un giorno mi misi seduto al pianoforte e sentii tutta la musica fluire attraverso il piano nel mio corpo. E improvvisamente capii come mi sentivo. Voglio solo che le persone vivano quella stessa esperienza con la mia musica».