Negrita: “Il nostro nuovo album è un'autodifesa”

Dopo 7 anni arriva un disco a tratti feroce, uno sguardo critico sul presente. L'intervista.

La discografia dei Negrita era ferma da tempo, dal 2018 nessuna nuova casella si era aggiunta. Oggi arriva “Canzoni per anni spietati” un album importante che riporta la band toscana a buoni livelli e li vede esplorare nuovi ambiti musicali. Ma è anche un album “di parola” nel senso che i testi hanno un loro peso e vanno ascoltati.  Per capirne di più ne abbiamo parlato con Pau, cantante, frontman e autore dei testi della band. Con lui si è viaggiato nei meandri del disco, nella relazione parole e musica oltre che approfondito i temi. Il progetto verrà presentato con un tour ad hoc. 

Perché sette anni tra un disco e l'altro?
Un po' di tempo comunque passa sempre, 3-4 anni, più o meno quelle sono le distanze tra un lavoro e l'altro. Quindi già una metà di questi 7 anni. Poi il covid ci ha portato la testa completamente da un'altra parte. Le preoccupazioni della pandemia fine a sé stessa e poi quello che ha prodotto su un gruppo di persone che per un lungo periodo non hanno avuto relazione diretta è stato devastante. Contemporaneamente siamo sempre abilissimi a guastarci il sangue tra di noi. Abbiamo avuto un periodo di crisi abbastanza pesante, non che sia una novità, quindi è per quello che non mi senti allarmato, però diciamo che è stato un periodo piuttosto pesante.

Siete insieme da tanto tempo.
Sono quasi 40 anni insieme, che è tanto per un gruppo di persone che non è psicologicamente tranquillo come noi, che fa un lavoro che ti sottopone a uno stress emotivo importante, un gruppo in cui ci sono caratteri forti che si incontrano, tanti galli nella stessa aia. Va da sé che succedano queste cose e allora non ci sono le condizioni per scrivere musica, perché scrivere musica è un processo creativo che tende alla felicità al di là delle tematiche affrontate. Ma non c’è solo questo. L'ultimo disco dei Negrita, forse anche gli ultimi due, non è che sia stato uno dei nostri lavori migliori e questa cosa è ovvio che lascia un pesante strascico psicologico a cui aggiungi un Sanremo del 2019 che non ci ha portato niente, come del resto anche nel 2003. Tutto questo insieme di cose non è stato un habitat favorevole alla creatività.

Ma poi cos'è successo?
Non lo so. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: “Dovremmo cominciare a sfrondare tutti i problemi che stiamo vivendo, che abbiamo appena vissuto, trascorso e ricominciare piano piano”. Anche per riconquistare un po' di fiducia. La prima cosa che abbiamo pensato è quella di diventare più contemporanei, uscire dalla romantica forma album e buttarci su delle pubblicazioni più legate al singolo pezzo. Volevamo fare due brani, per farli uscire in streaming, poi abbiamo detto facciamone tre perché almeno diamo un'idea più completa di quello che siamo in questo momento. Poi cominciavano ad arrivare dei brani che si sono fissati nel disco, quindi a parere nostro delle buone canzoni. Il cartello della fiducia è ricominciato ad affiorare. A quel punto potevamo fare un tour e poi pubblicare altre canzoni quando sarebbero arrivate. In realtà in poco tempo, una decina di giorni, ne sono arrivate altre. E quindi via tutti i piani  ed ipotesi fatte: facciamo un EP. Come siamo arrivati a 6 pezzi e abbiamo cominciato a crederci, è arrivato il settimo. E poi ho avuto l'idea di mettere “Viva d'Italia” e infine il pezzo di Drigo. Fondamentalmente è venuto fuori un disco da solo.

Un disco che è cresciuto anche in un’ottica “folk”. 
Era una musica giusta che accoglieva le parole che proponevamo, creando un equilibrio perfetto, in una nuova naturalezza nell’incrocio tra parole e musica. Era quella giusta per creare un fil rouge narrativo che non s’interrompesse, tra up and down voluti. Ed è ovvio che in questo contesto il primo che ti viene in mente è Bob Dylan.

Poi da Dylan a De Gregori il passo è breve. Come mai la rilettura di “Viva l’Italia”?
Quella canzone è perfettamente calzante per il momento storico che stiamo vivendo. È una carezza ed uno schiaffo al nostro paese. De Gregori, anche per noi rockettari, è una grande fonte di ammirazione e d’ispirazione.

Questo è un disco molto centrato sull'attualità, ma che mondo racconta?
Quello che riusciamo a vedere noi, e ho detto non a caso riusciamo a vedere, perché viviamo in un mondo fatto a strati, in cui ho l'impressione che le verità siano sempre più nascondibili, a seconda dell'uso, del consumo, di cosa si vuole fare e a favore di chi le fornisce. Quindi come contraltare, abbiamo una grandissima produzione di realtà alternative, di fake news, l'ultima nuova trovata che con i metodi che abbiamo oggi, social e digitale in generale, sono diventate strumenti di propaganda. Quindi viviamo questo tipo di realtà, una realtà che ci porta ad essere sempre sulla difensiva e non parlo di armi, parlo di intelletto.

Che sentimento porta con sé questo disco? Rabbia, impotenza, disillusione, delusione oppure speranza?
Io credo che li racchiuda un po' tutti questi sentimenti. Ogni volta che scriviamo, oppure se voglio essere più preciso, quando scrivo io, che conosco meglio l'argomento, cerco sempre di raccontare tante sfaccettature della vita. E molto spesso, non sempre, ma molto spesso, i dischi sono esperienze di vita messe in musica. La musica ti trasferisce delle sensazioni e dici, questo pezzo è così rilassato, pacifico, che mi viene da parlare di certe cose piuttosto che di altre. Se voglio rompere gli schemi e dare un po' fastidio all'ascoltatore, in questo ambiente così tranquillo, rilassato, ci metto dei temi forti, contrastanti ed ecco che ottengo un altro risultato. Quindi, automaticamente, la musica è anche un po' la regina, la padrona di quello che poi sarà il risultato finale. Quando hai tanti pezzi vari, come quelli di “Canzoni per anni spietati”, è ovvio che la musica in qualche modo ti suggerisca la strada da intraprendere. È a quel punto che si apre il vaso di Pandora della tua esperienza, della tua cultura, della tua intelligenza, se ne hai, di quello che vorresti vomitare fuori perché magari è rabbia, e a quel punto investi queste emozioni sul materiale sonoro che hai di fronte.

La rabbia?
La rabbia è immediata, va da zero a cento molto velocemente, è una formula uno, e quindi deve esplodere in qualche modo, la devi rappresentare fiammeggiante. Il verso “ma che Dio vi maledica e vi metta in una bara”; quella è rabbia, stiamo in qualche modo raccomandando a Dio di uccidere i costruttori di morte, praticamente dare loro pan per focaccia. Ma adesso che ho sputato bile, chi sono io? Nel senso, come mi colloco in questa dimensione nuova, contemporanea? E allora ti viene da scrivere chi sei e arriva “Noi siamo gli altri”. Mesi prima avevo appuntato questa frase: “Dov'è che abbiamo sbagliato?” Quando è arrivato il pezzo credo di aver impiegato 40 minuti a scrivere il testo, mentre in altre occasioni ho lavorato mesi su una canzone. A volte si è più ispirati, a volte meno. Tutte le tracce, più o meno, sono uscite con la naturalezza di quell'evento che deve uscire per forza, perché è arrivato il momento, è maturo. Oggi noi potevamo fare solo questo disco perché è come leggo il mondo io adesso, per come mi arriva. Quindi è come un richiamo alle armi in qualche modo. Noi i riservisti siamo stati convocati in questa battaglia che è una battaglia culturale. Devo dire, per fugare tutti i dubbi, questa non è una resistenza armata, è una resistenza pacifica, culturale, quindi poetica in qualche modo.

Ma questo disco pone più domande o da più risposte? Ad esempio: dove abbiamo sbagliato?
Quella è una domanda che ha la risposta dentro al testo, nel finale quando dice se questo è il risultato allora abbiamo sbagliato. La risposta è questa, il risultato ce l'abbiamo davanti agli occhi. Non abbiamo fatto niente, intendo come la mia generazione, abbiamo generato questa classe politica, ma il problema non è la politica. Dietro ci sono i mercati ovvero quelle poche grandi società che amministrano il capitale mondiale, in sostanza la finanza. Questo quindi è un disco di autodifesa, autodifesa comunitaria e resistenza poetica.

Vi sentite delle rarità, delle bestie in via d'estinzione nel raccontare certi temi?
Ci sentiamo dei coglioni (ride). Perché invece che metterci in un angolo tranquilli a fare i fighi con gli strumenti, ci stiamo esponendo con il rischio di prendere botte da una parte e dall'altra, per botte intendo critiche, senza minimamente cambiare le sorti del mondo, questo è una sicurezza. Forse ci inimichiamo così tanta gente che il nostro lavoro non avrà grandi ritorni economici. Siccome non siamo i Coldplay e non abbiamo a disposizione neanche la reunion degli Oasis, con i relativi cachet, praticamente ci stiamo tagliando lo stipendio da soli.

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