Il film su Bob Dylan avrà un sequel? Questi indizi dicono di sì

L'allusione nel finale e le dichiarazioni di Chalamet: ecco perché può esserci la seconda parte.

“A complete unknown”, il film sull’ascesa di Bob Dylan, avrà un sequel? Presto per dirlo. Ma una serie di indizi disseminati qui e là, tra scene presenti all’interno del film e dichiarazioni dei protagonisti, a partire da Timothée Chalamet, lasciano intendere che l’ipotesi non è poi così remota. Tutt’altro: è altamente probabile che al film sulla genealogia del fenomeno Dylan, dall’arrivo dell’artista a New York nel 1961 fino alla leggendaria esibizione al Newport Folk Festival del 1965, possa far seguito (almeno) un secondo film, e che quest’ultimo sia già in cantiere, anche considerando l’incoraggiante - e straordinario - successo di “A complete unknown”, tra i 74,1 milioni di dollari già incassati al box office a pochi giorni dall’uscita della pellicola in tutto il mondo e le otto nomination appena conquistate ai Premi Oscar, comprese quelle come “Miglior film”, “Miglior regia”, “Miglior attore protagonista” per Timothée Chalamet, “Miglior attore non protagonista” per Edward Norton-Pete Seeger e “Miglior attrice non protagonista” per Monica Barbaro-Joan Baez. Ma andiamo con ordine.

L’inizio principale sull’operazione l’ha inserito il regista James Mangold alla fine di “A complete unknown”. Chi non ha ancora visto il film, ci perdonerà per lo spoiler. Un primo piano di Timothée-Dylan mentre sfreccia sulla sua moto, via da Newport, Rhode Island, verso nuovi orizzonti. Poi un botto. L’allusione suonerà chiarissima, ai dylaniati: il boato che si sente prima che partano i titoli di coda di “A complete unknown” è quello del leggendario incidente in moto dell’estate del 1966 che cambiò per sempre la vita del cantautore. L’evento è uno dei più enigmatici della carriera del cantautore statunitense, avvolto da sempre da un fittissimo velo di mistero: ha affascinato biografi e scrittori, che nei decenni hanno provato a fare luce sulla vicenda, cercando testimonianze, indizi, prove. Le Sacre Scritture dylaniane dicono che il 29 luglio 1966, dopo un vertice con il manager Albert Grossman, che spingeva affinché in seguito al tour europeo il suo cliente accettasse di fare una sessantina di nuovi concerti tra Usa e Europa (oltre che realizzare uno speciale per l’emittente televisiva statunitense Abc - in più la Macmillan Publishers era impaziente di ricevere le bozze definitive del romanzo-poema “Tarantula”), Dylan cadde dalla sua Triumph Tiger T100 nei pressi di Woodstock. Nella caduta riportò la frattura di una vertebra cervicale. L’artista sparì dalle scene e di conseguenza si moltiplicarono voci e leggende metropolitane di ogni tipo sull’episodio: c’era chi sosteneva che fosse morto, chi ipotizzava che nella caduta fosse rimasto paralizzato o sfigurato e chi invece riteneva che Dylan fosse realtà rinchiuso in una clinica a disintossicarsi e che la storia dell’incidente fosse stata montata d’arte. Tornò in pubblico quasi due anni dopo, nel gennaio del 1968, e a partire da quel momento si dedicò ad una vera e propria demolizione del suo personaggio pubblico.

Un’esperienza mistica che anticipò la conversione dall’ebraismo al cristianesimo del 1978, quella che poi ispirò gli album della cosiddetta “trilogia cristiana”, “Slow train coming”, “Saved” e “Shot of love”? Tentato suicidio? Oppure una sfortunata scivolata su una macchia d’olio? Chissà. Decenni dopo il fatto, nelle sue memorie “Chronicles Vol. 1” del 2004 il futuro premio Nobel alla letteratura avrebbe detto: «Avevo avuto un incidente di moto e mi ero fatto male, ma dopo ero guarito. La verità era che volevo sottrarmi dalla corsa al successo». E del resto tre anni prima, nel 2001, già il biografo Howard Sournes nel suo “Down the highway: the life of Bob Dylan” aveva fatto notare come il 29 luglio 1966 non fosse stata chiamata nessuna ambulanza sulla scena dell’incidente e come Dylan non fosse stato ricoverato in alcun ospedale, arrivando alla conclusione che l’incidente offrì alla voce di “Blowin’ in the wind” l’occasione per scappare dalle pressioni che lo affliggevano in quel periodo. Già nella seconda metà di “A complete unknown”, in fondo, Timothée-Bob comincia a manifestare segni di insofferenza nei confronti del successo e della popolarità. Insomma, materiale per la sceneggiatura di un film ad hoc ce n’è. E il fatto che “A complete unknown” finisca proprio con l’allusione all’incidente suggerisce che la produzione abbia voluto trovare un espediente per non precludersi in alcun modo la possibilità di cavalcare l’eventuale - e annunciato, visto l’hype intorno al progetto - successo del biopic.

E proprio Timothée Chalamet ha alimentato le voci sul sequel. Lo ha fatto durante una recente intervista concessa ai microfoni del podcast “The Human Serviette” del giornalista e comico canadese Nardwuar: «Il film copre il periodo dal 1961 al 1965, la prima parte. Potremmo fare la seconda e la terza parte». Avete letto bene: seconda e terza parte. Vuol dire dunque che dopo “A complete unknown” usciranno altri due film sulla vita di Bob Dylan, che comporranno una vera e propria trilogia? Le parole sono quelle di Chalamet: «Dipende da come reagisce la gente. Il film finisce nel 1965, ma lui ha avuto un incidente in moto e aveva bisogno di una pausa». L’attore ha 29 anni, quattro in più di quelli di Dylan ai tempi dell’incidente. Per il terzo film servirebbe invece un altro volto, considerando che quando si convertì al cristianesimo il cantautore aveva 37 anni. A meno che la terza ed ultima parte della trilogia non arrivi tra quindici o vent’anni.

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