Lateral è un appuntamento periodico di Rockol per attraversare la storia della musica popolare, alta e bassa, e offrirne una vista, appunto, laterale. Da leggere, commentare e ascoltare con la playlist dedicata. Questo episodio è dedicato alla fine degli amori nelle canzoni pop e rock, italiane e straniere.
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Inghilterra, inizio anni Novanta. C’è voglia di lasciarsi alle spalle conflitti sociali, miserie e desolazioni del decennio precedente. L’orgoglio nazionale si risveglia, il vento si colora, è di nuovo swinging London. Arte, creatività, cinema e moda guidano un vero e proprio rinascimento culturale che sa un po’ di revanscismo. Tony Blair, Nick Hornby, Hugh Grant, Union Jack. La cultura pop sostituisce le navi, alla ricerca di una nuova forma di imperialismo. È Cool Britannia. La musica inglese torna a dominare le radio. Le etichette discografiche si inginocchiano per qualsiasi band con un chiaro suono di chitarra, un bel taglio di capelli e un parka. Tra laddismo e squali in formalina, due paia di occhi azzurri dominano la scena, in una rivalità che travolgerà i media ed entrerà nella vita della gente. Finirà con una serie di scontri tribali: Blur vs. Suede, Blur vs. Oasis, nord vs. sud, scuole medie vs. licei artistici. Quarant’anni dopo, il primo ministro britannico è di nuovo un laburista e gli Oasis annunciano la reunion. Cosa è stato e, soprattutto, cosa non è stato il Britpop?
Seconda parte
È il 7 gennaio 1995 quando John Harrs celebra il Britpop nell’articolo “Modern Life Is… Brilliant” sul New Musical Express, invitando le nuove generazioni a riflettere sulla meraviglia trasudante da Suede, Oasis, Blur ed Elastica e su quale fantastico momento sia essere giovani e britannici. La crociata contro il grunge lanciata da Stuart Maconie sulle pagine di Select sembra aver funzionato. “Definitely Maybe” e “Parklife” usciti l’anno precedente hanno definito il preciso momento di svolta della scena, fornendo la colonna sonora a un orgoglio nazionale che non si vedeva dai tempi della Swinging London. L’indie pop ha abbandonato le sue origini alternative per scivolare nella cultura mainstream e sulle prime pagine dei giornali. La musica per chitarra vende e il clima creato si accorda perfettamente con l'ottimismo del primo New Labour, la rinascita del cinema britannico e la stabilità economica.
La speranza e la fiducia rappresentano lo spirito del tempo e i ventenni che lavorano per case discografiche, riviste e studi di design guidano il cambiamento. La moda dei giovani mescola i codici di abbigliamento degli anni Ottanta, con magliette di squadre di calcio e vestiti dei mod. Il mondo impazzisce per Galliano e Alexander McQueen. È qualcosa che si sente nell'aria, Londra è di nuovo la città più cool del pianeta.
Ognuno fa la propria parte. La televisione. Top of the Pops celebra ciò che è già in classifica, mentre TFI Friday cerca di prevederlo. La radio. Alla metà degli anni Ottanta, gli Smiths, la band indie di maggior successo del paese, frequentatori abituali della Top 20, erano trattati dalla BBC come un gruppo di nicchia. A partire dal 1993, artisti come Elastica e Oasis sono nella playlist di Radio 1 ancor prima di aver pubblicato un singolo ufficiale. Le riviste musicali. In un periodo pre-internet, pre-social media, le copertine regalate ai protagonisti della scena si sprecano e riescono ancora a influenzare i comportamenti d’acquisto.
Quando il termine Britpop diventa di uso comune tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995 è proprio la stampa a imporlo. Quasi nessuna delle band protagoniste – sì, perché sono tutte band e per la maggior parte Londra-centriche – si riconosce in questa definizione. La scena è troppo varia e disordinata, i protagonisti troppo competitivi per accettare di essere classificati in un contesto che vede qualcun altro insieme a loro.
La Union Jack è rivendicata dalla cultura popolare e torna prepotentemente icona, su riviste, magliette, abiti, scarpe da ginnastica, dovunque. L’agenda politica capisce che è meglio ripulirla dai residui di imperialismo e dominio di altre culture e puntare sulla musica, una nuova inclusività e belle facce.
Il primo avvenimento che determina l’accelerazione finale del fenomeno Britpop arriva il 20 febbraio 1995. All’Alexandra Palace di Londra si tiene la serata dei Brit Awards, i premi dell’industria discografica. L’anno prima tra i vincitori ci sono i nomi di Sting, Stereo MCs, Gabrielle, Lenny Kravitz, Take That e Van Morrison. Nemmeno l’ombra di qualcosa di indie o alternativo. Padrone di casa per l’edizione che premia i migliori contributi per l’anno precedente, il 1994, è Chris Evans, il padrino del Britpop con la sua trasmissione su BBC1. Quando i Blur vincono quattro premi - tutti quelli più importanti, miglior gruppo, miglior album, migliore canzone, miglior video - si capisce che qualcosa è cambiato. Nessuno ha mai avuto tanti riconoscimenti nella stessa edizione. I Blur, oltre a stabilire un record, fanno capire definitivamente all’industria discografica dove bisogna mettere i soldi. Quando salgono sul palco per ringraziare, tra il serio e il faceto citano anche gli Oasis. Albarn a proposito del premio come migliore band dice: "Questo dovrebbe essere condiviso con gli Oasis". Graham Coxon aggiunge: "Molto amore e rispetto per loro". Gli Oasis vincono il Brit Award come miglior esordiente. Noel Gallagher ringrazia le madri dei componenti della band, il presentatore del premio Ray Davies per averlo influenzato e George Martin per aver prodotto i Beatles. Blur e Oasis non sono esattamente migliori amici, ma sembra ci siano tutte le condizioni per continuare a vivere in pace.
Nonostante tutti i premi, I Blur non hanno ancora avuto una canzone al numero uno delle chart britanniche. Noel Gallagher pensa di avere la canzone giusta per arrivarci prima di loro e, stimolato dal successo dei rivali ai Brit Awards, anticipa l’ingresso in studio per la registrazione. “Some Might Say” esce di lunedì, il 24 aprile, e diventa singolo della settimana per NME. Due sere dopo, gli Oasis sono a Top Of The Pops. Domenica 30 aprile, BBC Radio 1 annuncia che “Some Might Say” è entrata nella UK Singles Chart direttamente al numero uno, scalzando “Back For Good” dei Take That. Meg Matthews, fidanzata di Noel e organizzatrice occasionale di eventi, allestisce una festa al Mars Bar a Covent Garden. I Blur, che stanno completando le registrazioni di "The Great Escape", arrivano e si congratulano con la band di Manchester. Liam decide di movimentare la serata puntando le dita in faccia ad Albarn e ripetendo: "Fuckin’ number one, fuckin’ number one!". Niente di meglio per scatenare la competitività del leader dei Blur. Complice anche una storia con una ragazza, è la miccia che scatena la guerra del Britpop.
Ma prima di arrivare al famigerato agosto del 1995, qualche parola sulle altre band. I Radiohead, considerati dalla stampa outsider del Britpop, sono alle prese con il risentimento crescente per il loro primo successo “Creep”, che presto soprannominano tra di loro “Crap”. Nel giro di due anni, diventano una dei gruppi più interessanti del pianeta, producendo un album di grande profondità e fragilità. “The Bends” viene pubblicato il 13 marzo 1995 con il plauso quasi universale della critica. Capitalismo e consumismo sono i temi centrali delle canzoni. I Radiohead cambieranno ancora e definitivamente il loro percorso con il capolavoro del 1997, ma nel frattempo gettano i semi per la musica post Brit Pop dei Coldplay e dei Travis.
Da Sheffield arrivano i Pulp, forse i più inglesi di tutti. Dopo aver frequentato la scuola d'arte di Saint Martins all'inizio degli anni Novanta, Jarvis Cocker inizia a scrivere acuti pezzi sulla classe operaia, apparentemente molto più basati su esperienze di prima mano. Sesso e rapporti tra diverse classi sociali sono le specialità della casa. È il 22 maggio quando pubblicano il singolo “Common People”. Tre accordi (Do, Fa, Sol) suonati su una Casio MT-500 comprata al Music & Video Exchange di Notting Hill gli cambiano la vita. La canzone – una galoppata da 90 a 160 bpm - va al numero due delle classifiche, diventa l’inno degli outsider e fa dei Pulp l'unico gruppo Britpop di successo a incorporare l'elettronica nelle proprie canzoni. La storia è quella di un ragazzo povero e una ragazza ricca che studia al Saint Martin College of Art and Design a Londra, forse la futura moglie di quello che diventerà il ministro delle finanze della Grecia. La band è attiva da tempo, ha già realizzato quattro album rimanendo ai margini delle scene fino al nono posto di “His ’n’ Hers” pubblicato l’anno precedente. I Pulp frullano ritmiche disco con minimalismi punk e influenze Roxy Music per creare qualcosa di completamente nuovo. Il loro leader, Jarvis Cocker, è davvero un tipo originale. Un nerd in giacca a vento venuto dal nord. Goffo, occhialuto, autolesionista, respinto, sessualmente incompetente, reduce da un'adolescenza a base di percosse, umiliazioni e licenziamenti. Cocker enfatizza le sue debolezze e le trasforma in punti di forza fino a diventare un talento unico e polivalente, un sex symbol e il più acuto scrittore di testi della propria generazione, nonché di surreali intermezzi nelle esibizioni live. Non è immediatamente chiaro che i Pulp sono più dei Suede e degli Elastica il terzo lato del triangolo scaleno del Britpop. Lo si capirà sul palco di Glastonbury l’anno dopo.
Nel frattempo, siamo arrivati all’agosto londinese del 1995 dove, in un clima non più caldo o più freddo del solito, si sta preparando qualcosa che sarà ricordato nel tempo. Mentre un decennio prima l'indie agiva in contrapposizione alle principali etichette discografiche e faceva una bandiera della strategia di non vendersi, per tutta la prima parte del 1995 Blur e Oasis sono stati in competizione tra loro per la posizione numero uno nella classifica dei singoli e sui tabloid, corteggiati e accettati come strumento promozionale. Lo showdown arriva quando i Blur cambiano la data di pubblicazione del singolo che anticipa il loro nuovo album per farla coincidere con quella del singolo degli Oasis, che sono in procinto a loro volta di pubblicare il loro secondo album. I due singoli – “Roll With It” per gli Oasis e “Country House” per i Blur, in entrambi i casi canzoni che non rendono giustizia agli album che saranno pubblicati di lì a poco - escono lunedì 14 e costano 2,99 sterline, anticipati dalla copertina del NME di due giorni prima che titola “British Heavyweight Championship. Blur vs. Oasis”. È qualcosa di più di una acerrima inimicizia, non basta più il paragone con la rivalità tra Rolling Stones e Beatles. È una guerra tra il nord e il sud del paese, tra classe operaia e borghesia, tra due modi di subire e intendere la vita. Nel giro di qualche giorno succede di tutto e i protagonisti della contesa non si risparmiano. Alle continue provocazioni dei fratelli Gallagher, Albarn risponde cantando in una trasmissione radiofonica “Rockin’ All Over The World” degli Status Quo sopra “Roll With It”, a testimoniare la natura derivativa e dozzinale della band di Manchester. Non contento, chiama Damien Hirst, l’artista del momento che ha esposto uno squalo sospeso nella formaldeide, a dirigere il video di "Country House" che, tra intuizioni post moderne e citazioni di Benny Hill, vede tra i protagonisti Jo Guest, una pin up da pagina 3 del Sun. È il coronamento del matrimonio tra arte e commercio che non si erano mai mescolati così prima. Arriva negli anni in cui gli YBA – Young British Artists – colonizzano East London e vogliono essere ricchi e famosi, come le pop star. Il governo britannico è il primo al mondo a produrre una mappa delle industrie creative, un’analisi completa del loro contributo economico alla salute del paese. I numeri sono impressionanti: tra il 6 e il 7 per cento del PIL.
Passano pochi giorni dalla pubblicazione dei due singoli e Damon Albarn accetta di condurre lo speciale Britpop Now trasmesso dalla BBC, a patto che non vengano invitati i Suede. Sul palco si alternano Pulp, Supergrass, Elastica, Sleeper, Gene, Boo Radleys, PJ Harvey, Menswear, Marion, Powder ed Echobelly. Tutti tranne gli Oasis.
Il parlamento è chiuso per ferie, c’è bisogno di notizie e la sfida tra due band pop arriva in prima serata sul telegiornale della BBC e di tutti gli altri canali che parlano di news. Il Regno impazzisce e nessuno viene risparmiato. Nemmeno al culmine della Beatlemania si erano raggiunti livelli simili di eccitazione mediatica. Una testata seria come The Guardian invia un cronista in giro tra Londra e Manchester a intervistare proprietari di negozi di dischi e gente comune. “Blur o Oasis?” “Country House” o “Roll With It”? Per tutta la settimana - che peraltro registra la maggior vendita di dischi in Gran Bretagna da oltre dieci anni - si inseguono i dati sulle vendite, mentre i primi exit poll danno in vantaggio la band di Manchester. Il 20 agosto si contano le copie e la Top 40 Countdown annuncia il vincitore, ma bisogna aspettare l’edizione di Top of the Pops del 25 agosto per celebrarlo di fronte al paese. I Blur hanno venduto 274.000 singoli contro 216.000 degli Oasis. A presentare Albarn e soci c’è Jarvis Cocker - in una delle sue innumerevoli manifestazioni - e il bassista pensa sia simpatico indossare una maglietta della band rivale.
Passano quindici giorni ed esce l’album dei Blur, “The Great Escape”. Anche se è chiaramente inferiore a “Parklife”, le recensioni sono eccellenti e le vendite importanti (nella prima settimana dalla pubblicazione vende più del resto della Top 10 messo insieme). La consueta ironia di Albarn suona eccessiva, il suono è anodino e sottile. La varietà di stili non è sempre accompagnata dall’ispirazione, anche se non manca una grandissima canzone.
Altri 15 giorni ed esce il secondo album degli Oasis. Nonostante la critica non lo tratti bene - in particolare Melody Maker e Spin, mentre Rolling Stone gli dà quattro stellette - “(What’s The Story) Morning Glory?” è un trionfo. Con 345.000 copie vendute nella prima settimana, il disco diventa l'album del popolo, di quasi tutto il popolo inglese, presente in praticamente ogni casa del Regno. Dieci settimane al numero uno delle chart britanniche, contro le due di “The Great Escape”. Un album credibile nel trasmettere il senso di nostalgia tipico del Britpop, coniugato all'adorazione sfacciata della chitarra elettrica e con una serie di inni pronti per essere cantati negli stadi. Non è il disco più intelligente dell'epoca, né il più bello, ma quello che si ricorda ancora oggi per primo quando si pensa al Britpop.
Il 30 ottobre, gli Oasis estraggono il terzo singolo, “Wonderwall”. Le radio commerciali lo trasmettono una cinquantina di volte al giorno rendendosi conto di avere ignorato una band dal grandissimo potenziale commerciale. La frase del momento è che i Blur hanno vinto la battaglia di Britpop, ma gli Oasis hanno vinto la guerra. Per ironia della sorte, è lo stesso giorno della pubblicazione dell’album dei Pulp, “Different Class”, probabilmente il migliore del lotto. Il disadattato di Sheffield con la sua visione idiosincratica della vita diventa una pop star e debutta direttamente al numero uno delle chart britanniche con un disco allo stesso tempo appassionato, spiritoso, colto e brillante nel descrivere una Gran Bretagna imperfetta e divisa in classi sociali. Un album che suona bene dall’inizio alla fine, tra farfisa e chitarre, senza riempitivi e con liriche indimenticabili (“If fashion is your trade, then when you're naked I guess you must be unemployed”). Nel lotto c’è spazio per rimpiangere la disco music, citare Gainsbourg e comporre la colonna sonora (“I spy”) di un James Bond ambientato tra le ciminiere spente e i pozzi chiusi dello Yorkshire.
A suggellare quattro mesi irripetibili, a fine novembre la EMI pubblica il primo volume dell’”Anthology” dei Beatles, inizio della loro definitiva canonizzazione e, in qualche modo, una sorta di benedizione per la nuova scena musicale. Il momento dà fiducia a tante altre band che si trovano a frequentare le zone alte delle classifiche a partire dal 1996. Sono principalmente formazioni derivative, dai Menswear agli Ocean Colour Scene, ai Supergrass. Questi ultimi, pur giovanissimi - il cantante ha solo 18 anni quando pubblicano il loro singolo di debutto - hanno più degli altri un look e un suono molto connotati, una sorta di retro-rock band e un diverso insieme di influenze dai loro coetanei: Bowie dell'era Stardust, Lou Reed, Iggy Pop. Il momento sembra quello giusto per raccontare storie indie più lontane dal mainstream, magari vendendo anche qualche disco. In questa categoria si segnalano i Gene che dopo una serie di singoli debuttano con “Olympian” nel 1995. Per musica, testi, atteggiamenti, iconografia delle copertine dei loro dischi – splendide - sembrano davvero i nuovi Smiths. Martin Rossiter, il leader, ha una grande voce e uno spleen che va poco d’accordo con l’approccio upbeat di gran parte del Britpop. Dopo alcuni album interessanti, si scioglieranno e come gli Smiths rifuggiranno tutte le proposte per tornare a suonare insieme.
La Gran Bretagna riscopertasi cool e giovane vuole un nuovo leader, cool e giovane come lei. Si spalancano le porte all’era di Tony Blair, eletto segretario dei laburisti nel 1994. Blair è giovane, fotogenico, furbo e capisce che cavalcare il ritrovato protagonismo della musica pop gli può portare notorietà e consenso. Nell'estate del 1995, sorseggia gin & tonic con Damon Albarn alla Camera dei Comuni e interviene – per il secondo anno consecutivo – alla cerimonia di premiazione annuale organizzata dalla rivista musicale Q. Pochi mesi dopo, appare ai Brit Awards del 1996, per rendere omaggio agli Oasis, agli Stone Roses e ai Clash e presentare un premio alla carriera a David Bowie. Questa volta è la band di Manchester a trionfare con tre riconoscimenti. Pete Townshend li premia come migliore gruppo. La band sale sul palco e dopo un ringraziamento bofonchiato da Liam Gallagher con un montone shearling e le palpebre a mezz’asta, Noel fa un endorsement pubblico a Tony Blair (“He’s the man!”) e chiude con un “Power to the people!” a pugno chiuso.
I fenomeni pop si moltiplicano. Passano quattro giorni e nelle sale esce “Trainspotting”, il film che sposta i confini geografici in Scozia. Un milione di sterline per girarlo, due milioni per promuoverlo. Fedele alla lezione di Scorsese, Danny Boyle rende la musica protagonista, mischiando anni Settanta con brani da rave e una componente di Britpop. La Gran Bretagna dimostra di saper reinventare il cinema al di là delle commedie di Richard Curtis.
Ancora pochi giorni e arriva il terzo singolo di “(What’s The Story) Morning Glory?”, il primo ad arrivare in cima alle classifiche inglesi. “Don’t Look Back In Anger” è la prova regina dell’abilità di Noel Gallagher di frullare riff e melodie di altre canzoni per produrne di nuove. Il giro di pianoforte che introduce la canzone non sembra una canzone di John Lennon, è una canzone di John Lennon. Chiaramente un omaggio a “Imagine”. Anche se prosegue con un mashup tra n canzoni dei Beatles e “All The Young Dudes” composta da David Bowie per i Mott The Hoople, diventerà presto una sorta di inno nazionale di riserva, buono per tutte le occasioni. Mentre Morrissey dieci anni prima si rivolgeva ai propri fans invitando a non dimenticarlo (“But don't forget the songs that made you cry and the songs that saved your life”, da “Rubber Ring”), Noel invita i fans a non fidarsi troppo delle rock’n’roll bands (“But please don't put your life in the hands of a rock and roll band who'll throw it all away”).
Fatto l’inno, serve l’occasione giusta per farlo cantare a tutti. La celebrazione del più grande rito pagano del Britpop avviene nella primavera del 1996 in un villaggio a un’ora di auto da Londra. Gli Oasis sono alla ricerca di una prova incontrovertibile che certifichi il loro status di rock band più importante al mondo e in questa cittadina dell’Hertfordshire hanno la possibilità di dimostrarlo, con uno, anzi due concerti. I biglietti vengono messi in vendita alle 9 di sabato 11 maggio 1996. 2,6 milioni di persone ne fanno domanda, quasi il 5% della popolazione del paese. Costano 22,50 sterline, ma nel giro di pochi giorni iniziano a valerne 15 volte di più. Band come i Led Zeppelin si erano già esibite davanti a grandi pubblici a Knebworth negli anni '70, ma gli Oasis stabiliscono il record per il pubblico più grande fino a quella data, cantando davanti a 125.000 persone per due serate consecutive. In entrambe le serate, la prima canzone dei bis è la loro “Bohemian Rhapsody”, un pezzo di oltre sette minuti con una coda strumentale in cui in studio si intrecciano una trentina di chitarre elettriche, suonate quasi totalmente da Noel insieme a Paul Weller. A Knebworth, l’ex Jam e Style Council è rimpiazzato da un influenzato John Squire, il chitarrista che ha lasciato gli Stone Roses un paio di mesi prima. “Champagne Supernova” è l’unica composizione di Noel Gallagher che non è mai mancata dalla scaletta dei concerti. Sarà anche l’ultima canzone originale suonata dagli Oasis prima di sciogliersi. Per qualche mese, gli Oasis sono davvero la band più famosa del mondo, quello che volevano diventare. Non senza un prezzo, quello della perdità di credibilità come eroi proletari. Il passato, le strade di Burnage, la povertà, i cento lavori diversi non possono più essere la fonte di ispirazione dei primi due album. Con il successo Noel è diventato definitivamente uno “degli altri”.
C’è la musica. C’è il cinema. C’è l’arte. C’è un rinnovato senso di patriottismo. L’occasione per mettere tutto insieme in un cortocircuito perfetto che il laddismo poteva solo immaginare arriva con Euro96. I campionati europei di calcio arrivano in Inghilterra per la prima volta. Ian Broudie dei Lightning Seeds compone la musica, Baddiel e Skinner, due comici inglesi, scrivono il testo. "Three Lions (Football’s Coming Home)" diventa in quel momento e per sempre l’inno dell’Inghilterra calcistica. Una canzone sul senso di vulnerabilità nell’essere un tifoso dell’Inghilterra, tra dubbi, incertezze e una elevata probabilità di perdere (“30 years of hurt, never stopped me dreaming”). Quella che debutta con la Svizzera al Wembley Stadium l’8 giugno 1996, è una delle nazionali inglesi più forti di sempre e può contare sui goal di Alan Shearer (sarà il capocannoniere del torneo) e il genio di Paul Gascoigne. Quando quest’ultimo segna un superbo goal nel derby con la Scozia, la nazione pensa per un attimo che gli astri si siano davvero allineati, è tornata l’età dell’oro. La politica si impossessa subito del nuovo anthem con Tony Blair che al Labour Party Conference lo parafrasa proclamando dal palco: “17 years of hurt, never stopped us dreaming. Labour is coming home”. Sarebbe tutto perfetto se non fosse per la Germania, che batte la squadra di casa in semifinale. L’estate è appena cominciata, ma si sente già l’odore delle foglie che cadono dagli alberi.
Il termine Britpop non è più sufficiente a definire una scena che è esondata dalla musica per travolgere arte, creatività, economia, moda, politica. Ci vuole un termine più ampio e in qualche modo ancora più fedele alla tradizione. Il concetto di "Cool Britannia" - un gioco di parole ispirato alla canzone patriottica “Rule Britannia” - si crea tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997 a seguito di tre articoli usciti a poco tempo l’uno dall’altro: "London Rules" di Newsweek nel novembre 1996, "Great British Issue" di GQ nel dicembre 1996 e lo speciale di venticinque pagine di Vanity Fair "London Swings Again" nel marzo 1997. Tutte le attività culturali che si erano svolte in modo indipendente in precedenza sono unificate e “Cool Britannia” diventa un modo per definire la stagione della celebrazione della cultura giovanile e di un accresciuto orgoglio nazionale, ispirato alla cultura pop dei favolosi Sessanta.
Il 1997 sembra avere tutte le caratteristiche per essere l'anno più Britpop di sempre: Tony Blair, il politico con un passato rock, è destinato a diventare primo ministro, Oasis, Blur e Pulp stanno per pubblicare album molto attesi. Non andrà esattamente così. La nuova Swinging London si sta rivelando molto diversa dalla Londra del 1966, dove la novità era dietro ogni angolo. Tante band iniziano a suonare nello stesso modo e il Britpop si avvita in una spirale regressiva e sembra più una reazione contro altre musiche che cercano di affermarsi. Che il sistema abbia già digerito e normalizzato il fenomeno è chiaro quando Vanity Fair convince Liam Gallagher – all’insaputa del fratello – a posare in copertina con la fidanzata Patsy Kensit, in un tripudio di bandiere britanniche. È solo questione di giorni e Geri Hallywell fa la sua comparsa con l’abitino Union Jack ai Brit Awards. Un altro passo verso la fine.
Il primo a smarcarsi dal gruppo è il leader dei Blur. Il 1996 non è stato un anno facile per la band, alle prese con la metabolizzazione della sconfitta patita nella guerra del Britpop, il mancato successo negli U.S.A., conflitti interni, problemi con l’alcol e molto altro. Al Festival di Sanremo, le divisioni interne diventano chiare quando salgono sul palco con un roadie e una sagoma di cartone a sostituire chitarrista e bassista. C’è bisogno di qualcosa di nuovo. Coxon ascolta sempre più musica americana e i Pavement in particolare. Albarn ospita addirittura a casa il loro leader, Stephen Malkmus. Mentre i fratelli Gallagher sono ancora alle prese con la sbornia post Knebworth, i Blur rientrano in studio, prima a Londra e poi a Reykjavík. Le sessioni di registrazione durano mesi, il tempo necessario perché il suono dei Pavement si insinui nel DNA di Albarn e soci che non vedono l’ora di cambiare la loro immagine di bravi ragazzi e dare un taglio al Britpop. L’album “Blur” esce nel febbraio del 1997 ed è presentato dalla loro stessa etichetta come un passo di lato, un semi-suicidio commerciale. Quindi, non ci si aspetta che il singolo che lo anticipa “Beetlebum” – ispirato alle esperienze “chimiche” di Albarn e Justine Frischmann - possa vendere molto. Quando va dritto al numero uno, presto imitato dall’album, è il segno che i gusti del pubblico stanno cambiando. In tanti lo capiscono.
Noel Gallagher, ancora alle prese con quella che nella sua mente dovrebbe essere la versione in Cinemascope degli Oasis, del Britpop e della musica tutta, no.
Il primo maggio del 1997 il New Labour del 44enne Blair vince 418 collegi contro i 165 dei Tories: è la più schiacciante vittoria della storia politica inglese del dopoguerra. L’aria di cambiamento si vede anche nel numero di donne elette alla Camera, 120 di cui 101 laburiste. Noel Gallagher e Damon Albarn vengono invitati da Tony Blair alla festa dopo la vittoria. Noel, che riceveva il sussidio di disoccupazione solo tre anni prima, arriva al numero 10 di Downing Street in Rolls-Royce. Insieme a lui, al ricevimento ci sono Pet Shop Boys, Vivienne Westwood, Simply Red. Albarn declina all’ultimo momento quando viene a sapere che i Blair hanno iscritto i figli in una chiesa cattolica tradizionalista e manda un biglietto sarcastico in cui annuncia di essere diventato comunista. Nonostante Albarn, è una rivincita attesa da tanto tempo. La sinistra britannica era stata a lungo emarginata sia culturalmente che politicamente: contro la Thatcher, i laburisti avevano perso elezioni dopo elezioni. Negli anni Ottanta, la maggior parte dei musicisti si vedevano all'opposizione, la loro vita ruotava intorno al limitato successo del circuito universitario e delle trasmissioni radio a orari improbabili. Tutti i musicisti avevano votato laburista, abbracciato la causa anti-apartheid, supportato lo sciopero dei minatori del 1984, e si erano schierati contro le grandi etichette discografiche. E per la maggior parte degli anni Ottanta, avevano perso. Proprio come la sinistra politica, anche la scena "indie" non aveva mai veramente minacciato l'establishment musicale. Sembra davvero il riscatto di una generazione.
I mesi che precedono la pubblicazione del terzo album degli Oasis sono segnati da un senso di impazienza e di attesa quasi insostenibile, amplificato dalla scelta della band di limitare quanto più possibile l'accesso alle canzoni alla stampa, alla televisione e alla stessa casa discografica. I brani nascono durante una vacanza con Johnny Depp e Kate Moss nella casa di Mick Jagger a Mustique, ai Caraibi, più o meno nel periodo in cui Damon Albarn sta consultando le carte stradali dell’Islanda. Quando “Be Here Now” viene pubblicato il 21 agosto del 1997, è atteso da tutti come l’atto definitivo degli Oasis, l’opera che cambierà la storia della musica pop. I media si impegnano al massimo nel tentativo di espiare i commenti negativi all’album precedente e scrivono recensioni esagerate senza nemmeno sentirlo. Se sono gli Oasis, quelli che avrebbero potuto riempire Knebworth per venti giorni di seguito, deve essere necessariamente qualcosa di grande. Invece, l’album – nonostante le undici milioni di copie vendute – passerà alla storia come un pasticcio sovraprodotto, alimentato da dosi industriali di cocaina e opera di una band esausta. Un altro passo verso la fine.
La notte del 31 agosto Lady Diana Spencer, simbolo di modernità per la monarchia britannica, muore in un tunnel di Parigi. Da un giorno all'altro tutto cambia completamente: è davvero la fine della festa, o forse solo l’ultima tappa della trasformazione di una scena già ampiamente sbiadita, nonostante le copertine dei giornali e la vittoria di Tony Blair. Improvvisamente, sembra non ci sia più spazio per l’edonismo, la gente avverte il bisogno di qualcosa di più intimo e interiore. A catturare l’umore del momento, un po’ per caso, un po’ per quelle magiche coincidenze che accadono nella storia del pop, è un singolo di una band di Wigan capace di canzoni contemporaneamente grandiose e pigre. “The Drugs Don’t Work” dei Verve esce il 1° settembre 1997 e riesce a sublimare lo spirito del Regno, una sensazione di perdita che si è registrata raramente nella storia di un paese. La principessa del popolo non c’è più.
Nello spazio di una notte, i riferimenti al look dei Beatles svaniscono e la gente inizia a vestirsi come Robbie Williams. La Union Jack che aveva trovato posto anche sulla schiena di David Bowie sulla copertina di “Earthling” viene piegata bene e riposta in qualche cassetto. I dischi diventano più riflessivi, come “This Is Hardcore” dei Pulp che uscirà l’anno dopo, o il capolavoro dei Radiohead “OK Computer” che alcuni mesi prima è riuscito, come tutte le grandi opere, ad anticipare lo spirito del tempo. Tutto l’impegno di band come Kula Shaker e Ocean Colour Scene, non è sufficiente a colmare il grande vuoto che si è creato nelle classifiche e sulla stampa specializzata. Ci pensa l’industria discografica che promuove il ritorno del pop iper-prodotto di Spice Girls e Robbie Williams che, ironia della sorte, batterà nel 2003 il record degli Oasis a Knebworth. È la svendita finale del poco che è rimasto come cultura giovanile. Finisce anche il momento d’oro di Cool Britannia, il tentativo di rappresentare la cultura popolare britannica come capace di un multiculturalismo creativo, con la leadership mondiale nella musica, nel cinema, nell'arte contemporanea e nella moda.
Il Britpop è stato l'ultimo grande festival. L'ultima volta che i giornali e le riviste musicali hanno avuto una vera influenza e hanno plasmato la cultura popolare. Prima di internet, prima dei social media. Il suo impatto e la sua eredità sono diventati sempre meno chiari con il passare del tempo e il termine ha spesso assunto connotazioni negative. Si è detto e si è scritto che è invecchiato male, che era solo una scena derivativa. Nessuna delle band che l’anno segnato ha poi riconosciuto di averne fatto parte. Tutto brutto quindi? Non proprio. Insieme alla cultura rave, il Britpop ha restituito a un paese - e in certa misura al mondo - la voglia di ricostruire un senso comunitario della cultura e i concerti sono diventati i momenti celebrativi di questa recuperata sensibilità. E poi ci sono le canzoni, quelle che ti fanno sentire parte di qualcosa e si urlano tutti insieme nei concerti, con i pugni in aria. Oasis, Blur e Pulp ci hanno lasciato tante canzoni da cantare, canzoni che sono durate e che continuano a riempire gli stadi, con vecchi e nuovi fan – nemmeno nati quando sono state pubblicate – che continuano a portarle nelle loro vite, sulla metropolitana, per strada, alle fermate degli autobus, in vacanza. C’è un po’ della nostra vita lì dentro. E quando si è in mezzo a tanta altra gente che le canta con te ci si dimentica che queste canzoni hanno trent’anni, che forse non hanno inventato nulla di davvero nuovo. Si canta e a volte si piange. Siamo qui, ma siamo ancora giovani – per chi c’era già; siamo soli, ma anche insieme a tanta altra gente.
È per questo che quando gli Oasis annunciano il tour della loro reunion, i biglietti vanno a ruba e per un po’ non si è parlato d’altro, come se una compressione spazio-temporale avesse messo il 1995 e il 2025 uno dietro l’altro e in mezzo non ci fosse nulla. È così che artisti al loro debutto nel 2024 hanno rispolverato l’Union Jack sulla copertina dei loro dischi, altri hanno usato il termine “Britpop” per intitolare il proprio album o citato come fonte d’ispirazione.
I Blur e Damon Albarn – che vive da anni in Islanda - hanno cercato continuamente di allargare i confini della loro musica, esplorando continenti e collaborando con quasi chiunque. Jarvis Cocker è ancora il nerd magro di trent’anni fa e si conferma l’intellettuale proteiforme che si alterna tra musica, letteratura e arte varia. E gli Oasis? Beh, sono rimasti gli Oasis. Noel continua a chiamare “Our Kid” il fratello e a fare la stessa musica. Liam fa Liam. Eppure tutte e tre le band sono di nuovo insieme e in tour la prossima estate, a calcare i palchi del mondo con le loro canzoni di trent’anni fa. Celebrando le loro giovinezze e il concetto stesso di gioventù.
Come quasi ogni altro fenomeno culturale, il Britpop sembrava morto e invece sta tornando per dirci che alcune cose ce le ha lasciate, tra cui la canzone più bella di tutte. “The Universal” che forse aveva previsto tutto. Quando non lo aspetti più e pensi che non sarà possibile, “It really, really, really could happen”.
Al link una playlist che raccoglie le canzoni della seconda e ultima parte di questa storia di Lateral.