"Giuda!", gridò qualcuno dal pubblico nel maggio 1966 a Bob Dylan: aveva tradito il folk, per imbracciare una chitarra elettrica. Fare una cover è contemporaneamente arte e tradimento: rispetto dell'originale e personalità.
Ci vuole un gran coraggio per rileggere per intero uno dei concerti più importanti del rock, proprio quello dove contestarono Dylan con quell'urlo passato alla storia. Ma il coraggio non è mai mancato a Cat Power, una delle più brave e intense cantautrici ed intepreti degli ultimi decenni. Chan Marshall è è senza filtri e disarmante, quando racconta che decise d’istinto di rileggere il Royal Albert Concert di Bob Dylan di andare nella storica sala londinese quasi senza provarlo. Ora questo concerto diventa un album, che uscirà il 10 novembre.
Le immagini della scena, leggendaria, sono state ritrovate e usate come conclusione del documentario “No direction home” di Martin Scorsese: fu il culmine di un periodo di tensione tra il cantautore e i suoi ascoltatori. “Non ti credo, sei un bugiardo!”, rispose Dylan al contestatore- poi rivolto alla Band: “Play it fucking loud!”, con una furiosa versione di “Like a Rolling stone”.
Cat Power ha ricreato canzone per canzone il concerto. Che però si svolse alla Manchester Free Trade Hall: un equivoco generato dai numerosi bootleg circolati tra i fan per decenni. “La cosa buffa è che la sera prima di suonare alla Royal Albert Hall ho suonato proprio a Manchester”, racconta da Londra.
Un atto d’amore verso il più grande cantautore di tutti i tempi, ma anche l’occasione per riflettere su cosa significa fare una cover, sulla differenza tra cantautore e interprete, e sui pregiudizi nei confronti delle cantautrici/interpreti femminili.
Come è nata questo concerto e come è diventato un album?
“È stato tutto molto semplice: ero alla fine del tour del mio ultimo disco di cover, e ho ricevuto una telefonata: c’è uno show il 5 novembre alla Royal Albert Hall. Vuoi suonare? “Cazzo, sì, e interpreterò Dylan”.
Mi è sembrato ovvio: non avevo mai suonato alla Royal Albert Hall, non ci ero mai stata. Erano 30 anni che mi immaginavo Bob suonare lì dentro”.
Il concerto è fedele all’originale, con la stessa scaletta, la stessa struttura: la prima parte acustica, la seconda elettrica con la band. Quanto avete provato?
"Nessuna prova. Sono arrivata solo per ascoltare la band, per sentire come suonavano le canzoni. Ho chiesto un paio di aggiustamenti per assicurarmi che le interpretassero senza ego. Ma non volevo provare da solo perché sono un po' superstiziosa e volevo preservare il momento".
Dylan ha uno stile unico nell’interpretare le canzoni. Come le hai affrontate?
"Non volevo fare una rilettura letterale. Volevo provare a eseguirlo in un modo fedele al contenuto originale, ma volevo avere un ritmo più rilassato rispetto al suono rock della Band. È passato del tempo: volevo mostrare rispetto per quelle canzoni ma anche godermele, con un approccio non egoistico, ma amorevole e tenero. Poi io ho un timbro vocale diverso: non sembro Bob perché sembro me stessa".
Durante il concerto qualcuno ti grida “Judas!”, come a Dylan: tu rispondi invece “Jesus!”
"Mi ero trovata anche io in una situazione simile: ad inizio carriera suonai una volta da sola in un bar a Knoxville, nel Tennessee ed entrarano degli skinhead ubriachi, che iniziarono ad urlarmi dal bar. Mi tornò in mente quel concerto e pensai: Bob ha saputo gestire la situazione. Mi ha dato l’autostima per continuare a suonare, per non farmi ferire da quelle che erano semplicemente persone ridicole".
Dylan è per te una sorta di mentore: hai anche scritto una canzone sulla tua relazione con lui, “Song for Bobby”.
Racconta il primo incontro mancato nel 2000, quando venni chiamata dal suo staff ma non ero a New York. Sono amica dei suo figli, Sam mi suggerì di fare una cover di “I believe in you”. L’ho inserita in “Jukebox”, dove c’è anche “Song for Bobby”, che ho scritto dopo averlo finalmente incontrato qualche anno dopo, a Parigi nel 2007.
Ci siamo incrociati altre volte; una sera mi ha invitato a Santa Barbara ad un suo concerto: ha suonato proprio “I Believe in You”, che non metteva in scaletta da anni, usando una mia frase che io avevo inserito nella cover. Mi si è fermato il cuore… L’ho poi rincontrato in Inghilterra proprio nel periodo in cui ho fatto il concerto alla Royal Albert Hall: eravamo nello stesso albergo, l’ho fermato, aveva la mascherina ma sono sicuro che sotto ha sorriso. La stessa sera mi ha fatto avere due pass per un suo concerto che era sold out".
Recentemente è scomparso Robbie Robertson, che accompagnava Dylan quella sera. Lo hai mai incontrato?
"La Band ha fatto parte della mia giovinezza, ad Atlanta. Ho incontrato Robbie mentre stavo registrando “House of the rising sun”, una canzone che anche Dylan aveva cantato. Lui era nello studio accanto a me, ha bussato alla porta e mi ha chiesto se poteva sentire cosa stavo facendo e si è seduto per tutta la registrazione. Fu davvero dolce e speciale: spesso le persone non si prendono il tempo per conoscersi veramente in quel modo".
Questo è il tuo quarto album di cover. Cosa rappresentano per te?
"Molte dei cantanti che ho ascoltato crescendo cantavano canzoni scritte da qualcun altro: Billie Holiday, Patsy Cline, Elvis e Johnny Cash, anche Dylan. Adoro le cover: sono una tradizione nel jazz, nel country, nel blues e nel soul, e in un po' di rock 'n' roll. Anche nella musica classica c'è sempre stata gente che suonava musica altrui: fa parte di un aspetto normale e sano della nostra storia musicale umana.
Ma le etichette discografiche hanno bisogno sempre di un nuovo repertorio e di nuove canzoni, hanno capito come vendere un milione di canzoni facendole ruotare e promuovendole su MTV e sui media. Ha funzionato e hanno messo in secondo piano le cover".
Non sono rare le polemiche di chi sostiene che un/a cantautore/cantautrice sia più “artista” di un/una interprete…
"Non presto molta attenzione a queste dinamiche del pop e del gossip. Ascolto musica in cui cerco qualcosa di originale, che non ho mai sentito prima, qualcosa che che cattura solo il mio orecchio. Nell'hip-hop adoro il campionamento, adoro la produzione che sa creare melodie a partire da qualcosa di preesistente. Gran parte della musica moderna non riesco ad ascoltarla".
Spesso queste critiche vengono fatte alle interpreti femminili.
"Le donne sono sempre state sotto il microscopio: “Come ha potuto scrivere la sue canzoni? È solo una donna”… Pensano spesso che siamo soltanto solo un'altra Britney... Amo Britney anche se non scrive le sue canzoni: ha passato un periodo infernale e mi piacerebbe scrivere canzoni per lei, mi piacerebbe fare un disco country doo-wop con lei, semplicissimo e diretto…"
Una volta James Taylor ha raccontato che a Joni Mitchell veniva spiegato in continuazione dai suoi colleghi come comportarsi, come sbagliasse a esporsi così tanto nelle sue canzoni. Qualcosa di simile è successo anche a te?
"Ci sono passata, come succede nella musica e in ogni campo lavorativo: questo atteggiamento è ancora parte di questo mondo. Quando ho avuto mio figlio nel 2015 mi sono sentita sola, tutti si sono allontanati da me, la mia etichetta mi ha scaricato, così come quasi tutti i promoter. Pensavano che avere un figlio mi impedisse di fare la musicista: ho dovuto praticamente ricominciare da capo la mia carriera".