Il 31 marzo 1992 Bruce Springsteen pubblicò contemporaneamente due album: "Human touch" e "Lucky town". Due dischi realizzati senza l'ausilio della E Street Band, due dischi usciti in cui il Boss era alla ricerca di trovare un nuovo se stesso. Lui quel periodo lo sintetizzò così: ""Human Touch" e "Lucky Town" uscirono in un momento in cui, per trovare quello di cui avevo realmente bisogno, dovevo lasciare che tutto scorresse: cambiare, provare nuove soluzioni, commettere errori... vivere." Facciamo un salto all'indietro di 31 anni e leggiamoci le recensioni dei due album – prima "Human touch" e poi "Lucky town" – scritte per noi da due cantautori molto 'springsteeniani': in ordine di recensione, Riccardo Maffoni e Fabrizio Coppola.
Quando pubblicarono “Human touch”, il 31 marzo 1992, non avevo ancora compiuto 15 anni. Ascoltavo Bruce Springsteen già da 5 o 6 anni, avevo alcune cassettine e qualche vinile. Il primo lo comprai con mio padre, un sabato pomeriggio degli anni 80, alla Rinascente di Brescia, era “Born in the USA”. “Human touch” fu il primo album del Boss in versione CD, o almeno, per quanto mi riguarda, il primo che ascoltai in questo formato, allora così nuovo e moderno. Ricordo ancora quei pomeriggi passati in soggiorno dove tenevamo un impianto Hi-Fi. Mi mettevo in poltrona, libretto dei testi alla mano, cuffie, play.
“Human touch” come il già precedente “Tunnel of love”, è un lavoro meno rock rispetto agli altri del rocker del New Jersey. Ci sono un sacco di tastiere, un sacco di sintetizzatori, un sacco di pop. E manca la E Street Band. Questa volta, alla corte del Boss ci sono alcuni tra i più grandi session man in circolazione ed il suono è più nitido, pulito, meno sporco, meno stradaiolo, meno live. Alcune canzoni hanno una marcata anima soul, un genere che Bruce ha sempre amato. Sto parlando della romantica “Man’s job”, della intensa “Real world” con il grande Sam Moore alla seconda voce, della divertente “Real man” o della bellissima “Roll of the dice”, con un riconoscibilissimo Roy Bittan alle tastiere. I testi sono pregni di amore, ma non manca la delusione, l’illusione e il tutto è pervaso dal senso di responsabilità di un ragazzo che si è fatto ormai uomo.
”I wish i were blind” la ritengo una delle più belle canzoni d’amore scritte da Springsteen. E’ una dolce ballata, una sofferta confessione, un quadro struggente, un rosso tramonto sul lungomare. Non c’è rabbia in queste canzoni, non c’è la voglia di fuga, c’è la voglia di stare con qualcuno, la voglia di condividere una vita con la persona che ami.
“Human touch” parla proprio di questo. La voglia, il bisogno, la necessità di un contatto umano: “in un mondo senza pietà, pensi che quello che ti stia chiedendo sia troppo? …voglio solo sentirti fra le mie braccia e condividere un po’ di quel contatto umano”. “All or nothin’ at all”mi ha sempre divertito. E’ il classico rock ‘n roll, con tanto di intro di batteria, chitarre elettriche che la fanno da padrone e la voce del Boss bella e accattivante. “57 channels (and nothin’ in)” si stacca da tutto, è minimale, è cruda, è ironica ed ha un’anima profondamente rock che si fa largo battuta dopo battuta, frase dopo frase. Musicalmente è semplicissima; cassa “in quattro”, riff di basso suonato dallo stesso Bruce e qualche sintetizzatore qua e là. E il cantato è un parlato, ed ogni parola pesa come un macigno. “Ho una macchina giapponese, una villa ad Hollywood, ho tutto! Ho 57 canali… ma dentro non c’è proprio niente.” Una critica amara contro la nostra società, una sorta di rimprovero al mondo occidentale.
Ci sono più generi in questo album. C’è il folk dell’intensa “With every wish” arricchita dalla tromba con sordina di Mark Isham, o di “Pony boy”, un traditional, una tenera ninna nanna/filastrocca suonata da Bruce insieme alla moglie Patty Scialfa che chiude l’album. C’è il pop di “Soul driver” nel quale ritroviamo David Sancious, già compagno del Boss nella prima formazione della E Street Band, c’è il rock chitarristico di “Gloria’s eyes” e “Long goodbye”. C’è una canzone come “Cross my heart” che “sento” molto country. Sarà per via di quelle chitarre taglienti, o di quel cantato quasi baritonale ma io l’avrei vista perfetta per il grande Johnny Cash.
Forse ci sono troppi ingredienti in quest’album, e quello che arriva è poca continuità fra una canzone e l’altra. Ritengo che ci siano alcuni grandi pezzi, su tutti “I wish i were blind”, “Real world”, “Roll of the dice” e “57 channels”. Quello che non mi ha mai convinto totalmente sono gli arrangiamenti di alcuni brani. Al di là di questo, credo sia una buon album, non tra i migliori di Springsteen, ma un lavoro sincero, cantato in modo splendido con una voce in piena forma e ascoltarlo dopo tutto questo tempo credo possa ridargli un certo valore. Ultime note; da ricordare la grandissima aspettativa da parte di tutti (fans, casa discografica, critica, etc. etc.) al momento della pubblicazione e l’uscita in contemporanea con “Lucky town”.
Gli americani, quando sentono il bisogno di un cambiamento, mollano tutto e partono per un'altra città, un altro posto, un’altra casa e, con un po’ di fortuna, una nuova vita. Prima fanno una bella yard sale, cioè mettono in vendita sul prato di casa tutto ciò che non intendono portarsi dietro, poi stipano la loro giardinetta – che una volta era costruita a Detroit, oggi è di provenienza asiatica – e partono. E’ il mito della frontiera, del viaggio inteso come rinascita. Eccezion fatta – immaginiamo - per la giardinetta e la yard sale, questo grosso modo è ciò che ha fatto Bruce Springsteen a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Ha mollato tutto ed è partito: si è lasciato alle spalle una ex moglie, una ex band, e i suoi luoghi natali, ed è partito verso l’Ovest. Nella Los Angeles dei ricconi si è stabilito in una mansion milionaria con la nuova moglie, figlia del popolo come lui. Ci ha messo qualche anno – e qualche disco – per capire che la cosa non funzionava, che non avrebbe mai imparato a giocare a golf, che gli psicanalisti a Los Angeles costano molto di più che a Rumson, NJ, e soprattutto che a Hollywood appena esci sbronzo da un locale hai subito addosso decine di paparazzi in cocaina pronti a immortalare la scena.
Il disco di cui parliamo qui, “Lucky town”, è stato scritto e registrato proprio negli anni a Los Angeles. Alla fine delle sessions per “Human touch” Springsteen scrisse un altro brano, che gli sembrò talmente distante, per ispirazione e sonorità, da ciò che aveva appena finito di registrare, che decise di approfondire quel tipo di scrittura. Da quello spunto in poche settimane è nato “Lucky town”, un disco autonomo, con tematiche e sonorità nettamente distaccate da quelle presenti su “Human touch”. Nonostante sia un lavoro molto eterogeneo dal punto di vista musicale – l’ossatura del suono è data da un impasto di folk rock, blues urbano e country con massicce dosi di gospel –, il lavoro risulta compatto, come se le varie e diverse influenze finiscano per annullare se stesse nella generazione di un suono che va oltre la somma delle parti; e questa è una cosa che capita spesso nei dischi di Springsteen, abituato a saccheggiare la tradizione per trovare nuovi approcci a percorsi consolidati.
L’apertura del disco è affidata a “Better days”, una ruvida dichiarazione d’amore per la vita e per la nuova compagna, con chitarra elettrica in evidenza e cori di stampo gospel sui ritornelli. Da lì si passa subito alla title-track – la cui struttura armonica del ritornello è presa pari pari da “Have you ever seen the rain” dei Creedence Clearwater Revival. È uno degli episodi migliori del disco: un brano sulla rinascita spirituale e sulle paludi che bisogna attraversare per giungere alla Città della Fortuna, di cui Springsteen canta qui con la voce carica della rabbia che è l’unica alternativa al cinismo. Il terzo episodio alleggerisce la narrazione e trae spunto da un fatto tanto buffo quanto reale: sembra che un giorno Springsteen abbia visto in una vetrina una creazione molto kitsch che si componeva di tre figure, un dobermann a destra, Bruce Lee a sinistra e nel centro proprio lui, il Boss. Da lì a scrivere una canzone sull’episodio dev’essere stato un passaggio breve, e così è nata “Local hero”. Il testo contiene diversi passaggi autoironici, un elemento che mai era entrato nella scrittura springsteeniana; va detto che anche altre canzoni di “Lucky town” presentano spunti di questo tipo, come se l’autore stesso si rendesse conto che, viste dall’esterno, le difficoltà della sua vita avrebbero potuto far arricciare il naso a molte persone (“una vita di divertimenti e un tesoro da pirata non sanno molto di tragedia”, “Better days”).
Con “If I should fall behind” ci addentriamo in una delle tematiche più importanti del disco, e cioè la vita amorosa, i suoi ostacoli e le sue difficoltà. Cantata con voce accorata, è una ballata molto dolce sull’eterna promessa degli amanti, quella cioè di sostenersi e di prestarsi reciprocamente cura. Nei live del “Reunion Tour” la canzone, cantata a turno dai membri della E Street Band, è diventata un inno alla fratellanza e alla fiducia reciproca nella brotherhood della Strada E (un po’ retorico, certo, ma al Boss possiamo perdonare questo e altro).
Si torna su con “Leap of faith”, un uptempo cantabile e divertente sulla necessità della fiducia come punto di partenza per ogni impresa, prima di cambiare nuovamente suono e ambientazione. Infatti, all’interno di “Lucky town” c’è anche spazio per la critica sociale e la politica, che Springsteen ammanta di un blues elettrico dalle tinte cupe e fosche: “The big muddy”, lenta e dilatata, è una sorta di riflessione sulla vita, stretta tra i bassifondi dei compromessi e le bugie, cantata con un timbro che più cinico non si sarebbe potuto. “Souls of the departed" è una canzone sulla violenza e sulla morte, dalle strade di Bassora (siamo ai tempi della prima guerra del Golfo) fino ai boulevard di LA – che un mese dopo l’uscita del disco sarebbero stati teatro dei disordini passati alla cronaca come Los Angeles Riots –, per finire con l’amara chiusa dell’ultima strofa: “esercito il mio commercio nella terra di Re dollaro, dove vieni pagato e il tuo silenzio passa per onore”.
I due brani sono separati da “Living proof”, un inno rabbioso, elettrico e liberatorio sulla paternità e sugli spettri affrontati da Springsteen nell’ultimo periodo della sua vita (“La vita è un castello di carte, fragile come ogni singolo respiro di questo bambino che dorme nel nostro letto”). “Book of dreams” è un intimo quadretto matrimoniale, con le luci della festa, i brindisi, e le cicatrici che restano anche se il dolore sembra ormai passato e si può pensare a un nuovo inizio. La chiusa del disco è affidata a una ballata mossa e lirica, “My beautiful reward”, con chitarre acustiche in bella evidenza e controcanti da brivido nei ritornelli. Il nostro ci canta la sua versione della “splendida ricompensa”: si passa la vita in cerca, e ogni tanto si ha anche la fortuna di trovare qualcosa, ma l’unico modo per preservare il senso di ciò che si è trovato è non smettere mai di cercare.